Orrore sulla Maiella, vent'anni dopo: «La nostra pena eterna, nessun odio per il carnefice»

PADOVA. «Non c’è odio nei nostri cuori, non abbiamo mai detto “lo vogliamo morto”. Eppure siamo stati condannati a una pena eterna». Vent’anni sono passati da quando Aldo e Gabriella hanno visto uscire dalla porta di casa le loro due figlie Diana e Silvia, 23 e 21 anni, insieme all’amica di sempre Tamara Gobbo. Destinazione Maiella per una settimana di vacanza in mezzo alla natura.

«Sono andate via cantando e ridendo. Diana rideva anche durante l’ultima telefonata a casa, il giorno prima di morire. “Mamma abbiamo trovato in campeggio una comitiva di Vicenza. Abbiamo mangiato un sacco di gelato”. Così mi disse. Pensavo che al suo ritorno avrei dovuto sorbirmi i soliti discorsi sulla linea. Invece qua non ci è tornata più». Nessuno immaginava che sulla loro strada le tre amiche avrebbero incrociato Satana. Il diavolo vestiva i panni di Alì Hasani Aliyebi, pastore macedone di 23 anni. Provò a violentarle, ne uccise due. La terza, Silvia, riuscì a fuggire.
Aldo e Gabriella oggi hanno 83 e 74 anni. Sono persone miti e incontaminate da quel sentimento di odio che oggi serpeggia anche tra chi non ha alcun motivo per piangere. «Ci sforziamo di vedere il lato buono delle cose. Dal male può anche nascere del bene. In quella settimana di vacanza nostra figlia Silvia, la sopravvissuta, ha conosciuto l’uomo della sua vita. Si sono sposati e hanno due bambini, i nostri nipotini. Ora vive lì, in quei luoghi, e tutti la amano». Il marito si chiama John Forcone ed è una guardia del Parco della Maiella. Era l’accompagnatore delle tre ragazze padovane, Diana Olivetti, Tamara Gobbo e Silvia Olivetti. Rimase accanto a loro i primi giorni ma sul monte Morrone no. «È un percorso talmente facile che lo fanno anche i bambini», disse. Era vero. Salvo l’imponderabile.
Aldo e Gabriella stanno preparando le valigie, così come Maria Boscaro e Cesare Gobbo, i genitori di Tamara. I 20 anni da quel maledetto 20 agosto li trascorreranno lì sulla Maiella, con un piccolo pellegrinaggio e una messa nel paesino di Sant’Eufemia. All’anniversario dei 10 anni anche la parrocchia Santa Maria Annunziata di Albignasego organizzò un pullman e così i genitori delle vittime vennero rinfrancati dall’abbraccio della loro gente. C’erano i volontari dell’operazione Mato Grosso, di cui facevano parte anche Tamara e Diana. Vent’anni, però, sono tanti. La memoria sbiadisce. Le vite cambiano. E così l’appello lanciato qualche settimana fa in parrocchia è caduto nel vuoto. «Ci sono state solo due adesioni» dice sorridendo Aldo Olivetti. «Non importa, andiamo noi , con i Gobbo. Stavolta ci dovrà accompagnare su qualcuno, perché la nostra età non ci consente più tante scarpinate».
La chitarra di Diana è ancora custodita nella sua camera, insieme alle foto, ai diari di scuola e a tutte le cose di cui una ragazza di poco più di vent’anni si circonda. Le immagini di quella maledetta vacanza sono state incorniciate e appese all’ingresso. «Pensare che siamo stati noi a impartire l’amore per la montagna» ragionano i coniugi Olivetti scorrendo l’album dei ricordi. «Le abbiamo cresciute sui monti dell’Alto Adige e appena hanno raggiunto l’età dell’indipendenza hanno voluto vivere la montagna da sole. L’anno prima erano state in Trentino, quell’anno scelsero la Maiella».
I genitori di Tamara e Diana ricordano come fosse ieri quella telefonata alle otto di sera. “Carabinieri di Albignasego. Potete passare qui in caserma subito?”. Le immagini non sono sfuocate, nemmeno dopo vent’anni. È tutto maledettamente nitido. Le parole, le circostanze, i sentimenti. «Silvia è viva, delle altre due non ci sono notizie» ci dissero. «Ci caricarono in una volante della polizia e ci accompagnarono fin laggiù. Un viaggio interminabile». Arrivarono con il cuore colmo di speranza, aspettando che qualcuno uscisse dicendo: “Ci siamo sbagliati, ecco le vostre ragazze”. Invece no. Ai racconti di Silvia, la superstite, si aggiunsero le conferme delle indagini e il ritrovamento dei corpi. Macerie su macerie.
«I primi anni passavano lenti e le stagioni erano tutte uguali» racconta Maria, madre di Tamara. «Poi è arrivata la vita e si è portata via il dolore della morte. Sono arrivati i miei splendidi nipotini e io ho ricominciato a vedere la luce». La reazione a un dolore così grande è imponderabile. I genitori di Tamara hanno caricato tutto il contenuto della sua cameretta in un camion e l’hanno inviato alle missioni in Africa. Ora nel giardino della villetta di Villatora di Saonara c’è l’erba ben curata e lo scivolo di plastica per i bambini. «Le confesso che mi sono trovata più volte a ringraziare il Signore, perché in quella vacanza ci doveva andare anche l’altra mia figlia, Silvia». Silvia, accanto a lei, arrossisce. «Due giorni prima di partire la chiamarono dicendo che c’era bisogno di lei come baby sitter. Così non andò. Altrimenti avrei perso anche lei».
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