Padova, l’agonia del Cnr: laboratori vecchi, acqua dal tetto, topi e vetri rotti
I ricercatori costretti a trovare da sé i fondi per l’attività. Lo Stato non finanzia, si punta su aziende e progetti dell'Unione europea

Un ricercatore indica una delle bacinelle per raccogliere l'acqua dal tetto
PADOVA. Quando piove la bacinella si riempie d’acqua e bisogna interrompere la ricerca per andare a svuotarla, altrimenti c’è il rischio che s’allaghi il laboratorio. Non uno qualsiasi, ma quello del Centro Nazionale delle Ricerche di corso Stati Uniti dove centinaia di ricercatori lavorano ogni giorno per migliorare la vita di tutti (occupandosi di scienze chimiche, fisiche e umane). E a dire il vero sono sette i laboratori (in vecchie strutture prefabbricate) all’ombra della torre della Città della Speranza che sono ridotti così.

Un topo a spasso per i laboratori
L’EFFETTO DEI TAGLI Sono quelli che ospitano le sezioni di chimica, geologia, tecnologia delle costruzioni, biomedica e fisica ambientale. Furono costruiti nel 1975 per essere provvisori, dovevano essere sostituiti con palazzine definitive e sono ancora lì. Una delle tante soluzioni temporanee che nel nostro Paese diventano definitive. La settimana scorsa durante la visita del presidente del Senato, Elisabetta Casellati al consorzio Rfx, che è parte integrante del Cnr, erano appesi degli striscioni eloquenti: “laboratori fatiscenti” e “si alla scienza non alla fatiscenza”. Una protesta composta per una situazione che fa a botte con l’eccellenza. E questo non è nemmeno il problema più grave che affligge i ricercatori.

Una finestra rattoppata con il nastro adesivo
BEFFA RICOSTRUZIONE Nel 2006 il Cnr padovano ha deciso di privarsi di parte del terreno, cedendolo alla Zip e incassando 10 milioni di euro. L’intesa con i vertici nazionali del Centro era quella di poter usare quel denaro per ricostruire i laboratori, con la Regione che si era impegnata a metterne altri due. Si era arrivati al progetto, all’aggiudicazione provvisoria dei lavori, ma poi da Roma è arrivata la notizia ferale. Una presa in giro. «Quei soldi sono stati usati per altre necessità» recitava la nota ufficiale. Da allora la situazione è peggiorata: laboratori diroccati, dove non sono nemmeno garantire le norme di sicurezza. «Una sorta di scippo, speravamo finalmente di poter lavorare in ambienti più idonei» dice Francesco Tisato, autorizzato a parlare anche a nome dei colleghi con mandato sindacale. «Lavorare in queste condizioni non è salutare». Ci sono armadi arrugginiti, neon che penzolano e topi che scorrazzano sul tetto e che entrano e mangiano i fili della corrente.
MANCANO I FONDI La scure dei tagli si è abbattuta 15 anni fa e continua fino ad oggi. Da allora nessun governo ha più creduto nella ricerca o per lo meno ci ha creduto molto poco. Con fondi destinati ai lavori di laboratorio pari a zero. Il 99 per cento degli stanziamenti va a coprire gli stipendi del personale. E quindi? I ricercatori sono stati costretti a cercare aziende che finanzino progetti di ricerca (si riescono a mettere assieme 10, 20 milioni all’anno) e puntano molto sui progetti europei che si assicurano in grande quantità. La seconda beffa è che una parte dei soldi va a pagare la manutenzione degli stabili, perché Roma non se ne occupa. Si tratta per lo più del rifacimento dei tetti dei laboratori, della sistemazione delle grondaie, dello sfalcio dell’erba, della sistemazione degli uffici dove gli arredi sono del 1975, in molti casi veri oggetti vintage che avrebbero valore collezionistico in qualche sito di oggetti vetusti, sostituiti anche dagli uffici del professionista più taccagno. Senza contare che questi fondi – che dovrebbero alimentare la ricerca – servono anche a pagare 50 mila euro di Tari all’anno. Apriti cielo. Una ricerca strozzata. —
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