Ambulatorio e camper, i Medici in Strada tra anziani soli e lavoratori poveri

A Padova in via Tonzig si fornisce l’assistenza sanitaria a chi non ha mezzi: «Non solo senzatetto, c’è chi ha una casa ma non riesce a mangiare»

Simonetta Zanetti
Il camper in stazione (foto Bianchi)
Il camper in stazione (foto Bianchi)

Una signora si affaccia timidamente alla porta dell’ambulatorio in via Tonzig 9, un po’ nascosto dietro a una scuola. Esita quel tanto da dare il tempo a un volontario di andarle incontro: il suo medico di medicina generale è a Mortise, è anziana e per lei è scomodo da raggiungere. Il dottor Maurizio Sinigaglia l’ascolta e le fornisce le informazioni che le servono a risolvere il problema, evitandole così un “viaggio” cui forse avrebbe rinunciato.

Se in stazione c’è la trincea con il camper, in questo ambulatorio c’è il back office dei Medici in Strada, un gruppo di ex professionisti oggi in pensione nato per sostenere la salute di coloro che sono stati lasciati indietro dalla vita: c’è un pasto sicuro, il mercoledì e sabato in stazione, ci sono un consiglio e una parola di conforto. Ma gli ultimi, pur riconoscibili nel loro essere invisibili, non sono gli unici ad avere bisogno di un aiuto.

Ed ecco che il lunedì mattina i Medici in Strada aprono le porte di questo ambulatorio che vede alternarsi altre associazioni, per dare una mano a chi ha il coraggio di chiederla. Ma vorrebbero poter fare di più: «Molti non sanno della nostra presenza ed è un peccato perché siamo qui per aiutare» racconta Carmelo Lo Bello, ex commercialista, che assieme al dottor Romualdo Zoccali ha ispirato il progetto.

Con loro ci sono il chirurgo Giorgio Bolla, il dottor Sinigaglia e la dottoressa Fausta Ortu: in tutto una settantina di volontari, ma una mano in più da allungare verso il prossimo è sempre utile e benvenuta.

Nell’arco di una mattina arrivano 6-7 persone: due anziani chiedono aiuto per scaricare esami fatti altrove, un paziente ha bisogno di una medicazione. Tra gli obiettivi c’è anche quello di fornire informazioni su aspetti pratici come invalidità, esenzioni, burocrazia, «perché la sanità amministrativa non è all’altezza dell’eccellenza di quella operativa».

Ma questo ambulatorio vorrebbe servire anche per seguire chi viene intercettato in strada, tra una pastasciutta e un panino: «Il problema è riuscire a far tornare le persone, a prenderle in carico una volta che le hai avvicinate» spiegano.

Sono connessioni fugaci quelle che si creano con questa umanità provata, finestre che si socchiudono con sospetto prima di richiudersi senza preavviso. E se non ti sei infilato in quel pertugio, non li riacciuffi più, assicurano.

«Ci è capitata una donna che diceva di non sapere di essere incinta» proseguono «le abbiamo detto di venire in ambulatorio per visitarla, ma il giorno dopo era sparita: non l’abbiamo più vista. Le persone in difficoltà vengono a Padova perché ci sono i servizi, ma poi ripartono».

Malgrado la generosità adulta di una città solidale, con le sue mille associazioni di volontariato pronte a dare una mano più che altrove, le maglie non sono abbastanza fitte da riuscire a salvare tutti e la cultura dell’inclusione sembra ancora bambina. Paradossalmente, quindi, è più facile dare risposte a chi non vuole cambiare vita, per cui spesso bastano un piatto di pasta e una coperta.

«Ci sono persone con problemi psichiatrici che non vogliono essere “salvate”» raccontano «tuttavia, diversamente dalla narrazione, la maggior parte delle persone che vediamo sono italiane e non c’è violenza. La gente diventa cattiva quando ha fame, ma quelli che conoscono la privazione sono anche i prime a solidarizzare e a rinunciare al “bis” per lasciarlo al ritardatario di turno, sono quelli che chiedono un piatto da portare a chi non ha avuto coraggio di avvicinarsi, soprattutto in questo periodo: tutti questi controlli non aiutano le persone a fidarsi».

E poi ci sono i lavoratori poveri: «Sono persone che un impiego ce l’hanno, ma magari non hanno una casa o, ancora, hanno un’abitazione ma non riescono a far quadrare i conti e quindi preferiscono lasciare il cibo ai figli e vengono a mangiare da noi. Assieme ad altre associazioni li sosteniamo con qualche borsa della spesa, spesso lasciata con pudore sul pianerottolo».

I Medici in Strada nel tempo libero fanno ulteriore volontariato: con il banco alimentare o nella raccolta farmaci. Ma con le persone sbattute fuori dal sistema è più complicato: quando possibile cercano di aiutarle a riprendere il filo dell’esistenza, ad esempio cercando loro un lavoro «ma se non hai una residenza non esisti e tutto diventa più complicato» proseguono «servirebbe un passo avanti nelle politiche di inclusione».

Le donne che vivono in strada, fortunatamente sono poche. Ligia è una di loro: dopo averla visitata si sono presi cura della sua dieta, addirittura stabilendo una convenzione con un bar affinché provveda a una colazione sana e bilanciata: «Noi ci proviamo» dicono «ma quella vita non aiuta a essere rigorosi, se poi fa freddo e arriva un bicchierone di tè caldo zuccherato, salta il banco».

Eppure qualche spazio di manovra ancora c’è e passa per l’aumento dei servizi essenziali per gli invisibili: in città ci sono circa 150 posti letto tra il Torresino e le parrocchie, ma con la fine dell’emergenza freddo all’orizzonte, tutto tornerà a farsi più difficile: «Servirebbero più posti letto, più gabinetti pubblici in cui garantire un’igiene dignitosa e la possibilità di un sostegno psicologico e una tettoia al Torresino per evitare che la gente si inzuppi in attesa di entrare» concludono «ma soprattutto, ora che la gente tornerà a dormire per strada, il problema più urgente sono le coperte: le persone le tengono una notte e la mattina la abbandonano e gli spazzini la buttano e non bastano mai. Sono pochi quelli che si portano dietro la loro vita nel carrellino, la maggior parte preferisce non far vedere la sua storia. Abbiamo chiesto un magazzino in cui recuperarle, ci basterebbero dei contenitori in cui raccoglierle, ripulirle e rimetterle in circolo».

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