Quando Bob Dylan divenne il testimonial della beat generation

di RICCARDO ROCCATO
Ma chi è Bob Dylan, e perché a settant'anni suonati continua ad essere celebrato come una inossidabile icona della musica folk-rock? Se lo chiedono soprattutto i giovani, increduli di fronte ad una fama e ad un successo che tra tante luci e poche ombre si è allungato per oltre mezzo secolo fino ad oggi.
Spiegarlo, è una sorta di ritorno alle origini mischiato a struggenti amarcord: ripercorrere gli anni della consacrazione di Dylan a profeta di una intera generazione, non solo americana, significa anche raccontare la storia del dopoguerra e delle pulsioni, soprattutto sociali, che l’hanno fortemente caratterizzato.
Ci riferiamo agli anni bui e insanguinati delle conquiste sociali, dalla lotta per i diritti civili alla protesta non violenta contro la guerra in Vietnam.
Il cantante americano, che domani sera si esibirà al Palafabris di Padova in coppia con Mark Knopfler, un altro stagionato mito del firmamento musicale Usa, di quegli anni è stato uno degli indiscussi protagonisti. Le sue canzoni, soprattutto quelle eseguite in coppia con l'allora compagna Joan Baez, per scelta popolare sono diventate la colonna sonora di eventi drammatici che hanno inciso fortemente nella storia e nell'evoluzione sociale degli Stati Uniti. Producendo, a livello planetario, un'onda d'urto contestataria in grado di dissestare secolari luoghi comuni e tante retoriche convenzioni.
Ricordiamo, proprio per i più giovani, cos'è successo in America tra gli anni '50 e i '60, quando gli Stati Uniti decisero di abbracciare un corso di politica estera che prevedeva l'intervento militare in paesi al di fuori del continente nordamericano. A ferite ancora aperte per il fallimento della guerra in Corea, con la spedizione a Cuba e il disastro militare della Baia dei porci la supremazia bellica americana venne messa per la prima volta in discussione. La guerra in Vietnam fece il resto, provocando sul fronte interno una vasta contestazione sulla legittimità di ogni intervento militare all'estero.
All'interno di una generazione come quella beat che già contestava il mito del denaro, l'antimilitarismo inteso come opposizione all'industria bellica e quindi come dissenso da qualsiasi tipo di intervento armato, divenne uno degli stimoli per la lotta non violenta, che esplose verso la metà degli anni '60 in clamorose contestazioni di piazza.
In quel periodo non si contarono i meeting, le manifestazioni di protesta, i cortei e i sit-in. L'inizio della contestazione verso la guerra nel Vietnam è celebrato a forti tinte nel film di Brian De Palma «Vittime di guerra» e si riferisce alla messa in onda da parte di una televisione americana dell’azione di un gruppo di marines che assaltando un villaggio vietnamita stupravano, torturavano e uccidevano donne e bambini indifesi.
Quel processo diventò irreversibile. Milioni di persone iniziarono a dubitare del mito dell'americano buono, l’onesto gendarme che difende su ogni continente, a prezzo della vita, gli ideali della libertà e della democrazia.
Questa pacifica rivolta generò un movimento di opinione che costrinse la classe politica Usa a mettere fine all’avventura vietnamita, ma soprattutto segnò un cambiamento radicale nelle coscienze degli americani e nel loro rapporto con le istituzioni.
Una frattura destinata ad allargarsi in seguito al caso Watergate e ai successivi scandali che coinvolsero Washington.
I poeti della beat generation furono uno dei simboli catalizzatori di questo movimento. La protesta nei meeting e nei sit-in si articolava in maniera non violenta anche attraverso la lettura delle poesie di Ginsberg, Ferlinghetti, Rubin e Leary. E' rimasto un evento storico lo Human Be-in, il grande raduno organizzato proprio da Allen Ginsberg al Golden Gate Park di San Francisco il 14 gennaio 1967. Lì, per la prima volta, si parlò di "figli dei fiori" e si coniarono alcuni slogans diventati poi famosi: "Fate l'amore non fate la guerra" e "Mettete dei fiori nei vostri cannoni".
I principali testimonial mediatici del movimento non violento furono proprio questi due cantautori: Bob Dylan e Joan Baez. Musicalmente incolti, figli di un Midwest povero e sottosviluppato dal quale erano usciti con grandi sacrifici, hanno avuto il pregio di saper raccogliere l'essenza di quel movimento di protesta, e di raccontare quelle giornate in musica come nessuno fino a quel momento era mai riuscito. Con note e parole che, come diceva Dylan, si «diffondevano nel vento». Era il talking blues, il blues parlato.
Queste canzoni di grande impatto emotivo, ascoltate e ripetute da una intera generazione di giovani, sono diventate il manifesto musicale di un'intera epoca. Oggi come ieri, quando si ricordano quegli anni, il tema musicale che accompagna immagini e ricordi è soltanto uno: quello composto e cantato da Bob Dylan sulle note di una chitarra e di una armonica a bocca.
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