«Quando il burcio s’incagliò sette giorni nel ghiaccio»

Riccardo Cappellozza e Luciano Salmaso sono gli ultimi due barcari di Battaglia «Ho iniziato a lavorare con mio papà da “puteo” e ci sono rimasto fino al 1965»





«Si salvava chi aveva la barca di proprietà, mentre invece chi l’aveva noleggiata “al quarto” e a fine stagione doveva garantire al padrone il 25% dei ricavi faceva fatica a sbarcare il lunario». Riccardo Cappellozza e Luciano Salmaso, 87 e 86 anni, i due ultimi barcari rimasti a Battaglia Terme, raccontano i particolari di un mestiere difficile, estinto ormai da mezzo secolo, ma nella loro memoria ancora vivo più che mai.



Il percorso classico per i barcari di Battaglia Terme era quello verso Chioggia, Venezia e ritorno. In tutto 135 chilometri, ridotto a 85 dopo l’apertura della conca di navigazione, che quando non c’era vento o difficoltà di carico e scarico poteva durare anche mesi. «Quando non si poteva tirare su la vela bisognava andare avanti a remi», spiega Cappellozza «Non era un lavoro semplice anche perché si adoperavano remi da 8,5 metri che richiedevano un notevole sforzo fisico. Una volta siamo rimasti fermi cinque giorni in laguna ad aspettare che si alzasse il vento. Durante il periodo delle vacanze si portava in barca la famiglia. È così che ho iniziato, quando all’età di 9 anni mio papà Adriano mi fece salire per la prima volta sul burcio di sua proprietà. Ricordo anche momenti belli come i pranzi, anche se molto rari, alla “Osteria dei Barcari” di Brondolo, e quel trasporto per i militari americani di migliaia di scatolette di carne. Quella volta non abbiamo patito la fame».



Da Battaglia verso Venezia partivano barconi carichi di trachite, calcare, bietole, cereali, farina, legname per le bricole, botti di vino e ceste per il pesce costruite con i rami di castagno dagli esperti “cestari” di Galzignano Terme, in particolare dalle famiglie Gallo e Zanaga della Val Pianzio e destinate ai pescatori di Chioggia. «A Battaglia c’era un armatore, Gildo Benelle, tra i più potenti nel settore dei trasporti fluviali, che possedeva la bellezza di 21 barche e un rimorchiatore (il Diaz)», racconta Luciano Salmaso «Uno di questi barconi, il “Novo Bruno” di 1600 quintali di stazza, l’aveva preso al “quarto” mio papà Tiziano. Ho iniziato a lavorare con lui da “puteo” e sono rimasto in barca fino al 1965. Un epilogo amaro che mi ha costretto ad andare a lavorare come manovale alla Magrini Galileo».



La fortuna di Cappellozza è stata quella di poter disporre in quegli anni di una barca a motore che rendeva il lavoro del barcaro meno faticoso. «A Venezia c’erano cinque-sei piazzisti che facevano il bello e il brutto tempo e talvolta ci costringevano a lavorare a basso costo» rivela Cappellozza «Così noi che potevamo disporre della barca di proprietà abbiamo cercato altre vie per non finire nelle sgrinfie di questi piazzisti della Giudecca. Abbiamo iniziato a trasportare materiali di vario genere lungo il fiume Po. Nel tragitto Venezia-Battaglia-Mantova. La rotta del Po d’inverno aveva però l’insidia del ghiaccio. Ricordo che, una volta, con il nostro Burcio Maria siamo rimasti incagliati nel ghiaccio dalle parti di Mantova per una settimana. Noi barcari non avevamo grandi studi, la barca era la nostra seconda casa. Conoscevamo, grazie all’esperienza tramandata di padre in figlio, tutti i segreti della trasporto fluviale. Un mestiere affascinante anche se sapevi quando partivi e non quando tornavi». —

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova