Quella volta che Padova si salvò per miracolo

Il giorno dopo – se si può fissare con precisione un dopo – è un sabato. Roberto Bano, professore al Geometri di Padova e assessore anziano a Vigonovo, salta su una barca direttamente da una finestra al primo piano di villa Sagredo, dopo aver passato la notte più incredibile della sua vita - ma ci torneremo tra poco. Bano ha con sé qualche bottiglia di latte e vuole portarla ai vicini. L’acqua, nelle campagne intorno, comincia a calare ma è ancora alta. Dalla barca il professore sventola un fazzoletto bianco per richiamare l’attenzione di un vicino, alla finestra di un casolare distante. Sopra di loro vola un elicottero, il pilota probabilmente interpreta il fazzoletto come un segnale e scende, atterrando in una delle rare piazzole emerse. «Naufrago?», chiede. Bano, incredulo, annuisce. Non è mai salito su un elicottero. E non fa in tempo a riprendersi dall’emozione che sotto di lui si dispiega il paesaggio dei campi e dei paesi allagati, a perdita d’occhio. È una distesa d’acqua densa – melma che trascina oggetti indistinguibili – dalla quale emergono solo i piani alti delle case e rami degli alberi, rari argini asciutti e strade affollate di gente e di animali, in movimento. È il 5 novembre. È l’anno 1966. Per tutti è un giorno che non si cancellerà. In provincia di Padova sono sommersi trentamila ettari di terra. Non ci sono morti, ma è un disastro che resterà nella storia.
La rotta di Camin. «A Vigonovo l’acqua era arrivata dal Piovego», racconta Bano. «Non si è mai saputo davvero com’è andata, ma in tanti sostengono che per salvare la zona industriale di Padova, appena costruita, a un certo punto si sia scelto di rompere l’argine destro dalle parti di Camin». Visto dall’elicottero, tutto appare più chiaro: l’acqua è defluita dalla rotta del Piovego con una furia devastante e conquista ancora terreno muovendosi su due fronti. Ha invaso Vigonovo e le campagne, da una parte. È scesa verso Villatora, Saonara e poi più giù verso il Piovese, dall’altra parte. A qualche centinaio di metri d’altezza, Bano sorvola via Vigonovese, ancora allagata.
Salvi in barca. «Pioveva da settimane», ricorda Anna Maria Pagnin, classe 1939. «E il 4 novembre fa un caldo inquietante, c’è vento di scirocco. Le strade al mattino sono già allagate. Io abito in via Vigonovese, casa al piano terra, giusto un gradino rialzata. Ho due bambini di 3 e 5 anni. Mio marito anticipa il rientro da lavoro. A mezzogiorno è a casa, siamo preoccupati. Mettiamo in salvo le nostre cose sui mobili, perché l’acqua sale costantemente. A sera arriva a un metro e dieci ed è allora che mio marito esce a cercare una barca. Carichiamo i ragazzi e le cose più preziose e portiamo tutto in una casa più alta, dall’altra parte della strada. Ma non è facile, perché è come attraversare un fiume, la corrente è forte e spinge via la barca. Passiamo la notte al sicuro, al primo piano. E da fuori si sente un uomo gridare, chiedere aiuto: si è messo in salvo su un albero e non c’è nessuno che lo aiuta a scendere».
Il Brenta, il Brenta. Quella sera il sindaco di Camponogara Alfredo Tamburini, è al cinema dopo aver presenziato alle celebrazioni del 4 novembre. Lo raggiungono durante la proiezione per avvisarlo che il Brenta è vicino allo straripamento, soprattutto a Conche di Codevigo. «Arrivo sul posto e trovo un ingegnere del Genio civile che grida a tutti di mettere in salvo le bestie», racconta. «C’è gente che si affretta a tornare a casa, altri che restano lì tutta la notte, perché hanno capito che non ci salveremo. È allora che cominciamo a cercare un punto in cui far uscire l’acqua e ci viene in mente Fiumazzo, dove la Romea taglia per andare a Codevigo, oltre il Novissimo. C’è un dislivello di 172 centimetri, decidiamo di tagliare lì e la gente si mette al lavoro con le vanghe, mentre io avviso il prefetto che ci promette l’esplosivo per far prima». Ma non c’è tempo, quella sera, per aspettare. Il prete suona le campane a martello. «Come un formicaio, la gente va sugli argini e comincia a scavare», racconta Tamburini.
Codevigo si allaga. A Conche però il Brenta ha già superato gli argini. E più a valle, verso le 21, dopo un pomeriggio di tregua, la pressione dell’acqua fa saltare il metanodotto Marghera-Contarina, aprendo un varco di un metro e mezzo sull’argine sinistro. Don Giuseppe Salbego, parroco di Codevigo, dopo un sopralluogo chiama i carabinieri, i vigili del fuoco e la prefettura e chiede di fermare il traffico. Poi suona le campane a martello. Ma l’acqua alta un metro e mezzo avanza e in tre quarti d’ora raggiunge le prime case, muovendosi verso Rosara e Codevigo. «Alle 23 anche sul canale Novissimo si aprono le prime tre falle», racconterà il parroco. «Ma per i soccorsi dobbiamo aspettare le sette del mattino dopo - il 5 novembre - quando arrivano tre mezzi anfibi e due camion dei Lagunari. Di più non potevamo chiedere, anche perché durante la notte saltano le linee telefoniche». Per tutta la notte le barche dei fratelli Bassan girano di casa in casa per salvare i compaesani, compresi quelli che hanno trovato rifugio sugli alberi. «Ma le bestie no, quelle non si riesce a salvarle», ricorderà il parroco. «E io ricordo il lamento degli animali, come se la natura stesse piangendo».
I morti che salvano i vivi. Il fronte dell’acqua si muove rapido verso Santa Margherita e Rosara. E, su un altro versante, travolge il cimitero di Codevigo, sfonda il muro e porta via le bare, scavando una fossa profonda tre metri al centro del camposanto. Giorni dopo, saranno ritrovate ossa a tre chilometri di distanza, la bara di un bambino a Ponte della Rotta, altri resti finiscono in mare. Ma i muri del cimitero frenano la furia dell’acqua e la restituiscono al suo corso rallentata. «Di quella notte ricordo una vecchietta abbracciata al suo maiale sull’argine ormai allagato», racconterà ancora don Giuseppe. «Non voleva lasciarlo, hanno dovuto prenderla a schiaffi per toglierglielo. Un altro voleva a tutti i costi portarsi via una poltrona».
La mattina, il disastro. Nell’Alta il Brenta è arrivato con una furia appena attenuata rispetto a quella con cui ha devastato il Vicentino. Si teme comunque per Padova ed è il motivo per cui si decide di rompere gli argini in località Tavello, a Limena. Ma la mattina del 5 è soprattutto verso Codevigo che si concentrano ancora gli sforzi per limitare i danni. Da Udine arrivano undici quintali di esplosivo con cui si dà corso al proposito di far saltare l’argine a Fiumazzo, così da alleggerire anche il Brenta. A Conche la gente ha passato la notte sugli argini a frenare l’acqua con sacchetti. Ci vuole l’intera giornata per preparare l’esplosione che butta giù duecento metri di argine. «L’acqua», racconterà Alfredo Tamburini, «fuoriesce con la forza di una cascata. E io mi addormento al telefono mentre parlo con il prefetto per comunicargli che la dinamite era arrivata».
Tutto da buttare. «All’alba, dopo una notte senza sonno, i pompieri ci portano a San Gregorio», ricorda Anna Maria Pagnin. «Solo più tardi riusciamo a tornare a casa. Il parquet è sparso nel giardino e per strada, all’interno è tutto coperto di melma, da buttare. L’acqua è arrivata a un metro e venti. Ci daranno, dopo mesi, un risarcimento di 500 mila lire con cui a malapena riusciremo a comprare parte della cucina». Giù a Codevigo la battaglia contro il Brenta non è ancora finita. «Solo il 7», racconterà poi don Giuseppe, «arrivano i primi soccorsi. Tanta gente da Padova, dai Colli e poi dopo anche da altre zone del nord Italia, mi vengono in mente persone di Desio e di Saronno. Tutti hanno lavorato tanto e quella che sembrava la fine, è stata poi un nuovo inizio. Le terre, dopo quel disastro, sono state perfino più fertili».
La notte dei tori. Intanto Bano è stato messo in salvo dall’elicottero e torna in municipio, dove, da assessore, comincerà a ricevere i cittadini. Ma prima deve tornare a Villa Sagredo, al podere di suo padre Luigi, perché ha un conto in sospeso.
Il giorno prima - ossia il 4 - Luigi Bano, padre del professor Roberto, vedendo l’acqua salire di livello dopo la rottura dell’argine del Piovego, libera dalle catene i trenta tori di razza pezzato-rossa che tiene nella stalla - la barchessa di Villa Sagredo - e che sono in pratica tutto il patrimonio della famiglia, insieme alla terra. Gli animali, da sei quintali l’uno, vengono ricoverati nel piano rialzato del palazzo Sagredo, dimora nobile dove si dice che Galileo Galilei abbia concepito, se non proprio costruito, il primo cannochiale. Il palazzo è vuoto e in decadenza, perché la proprietà è divisa, e i trenta tori occupano il salone alto circa un metro rispetto al piano campagna. Ma l’acqua - che a sera raggiungerà la quota record di 2.43 - arriva ben presto alla pancia degli animali. I tori sfondano la porta che dà accesso al vano scala, percorrono nella foga la gradinata in pietra marmorea che conduce al primo piano e con i loro 180 quintali di irruenza prendono possesso del piano nobile, dove passeranno la notte a montarsi ininterrottamente, irrequieti, muggendo, collaudando come mai era stato fatto prima il pavimento in terrazzo veneziano e il solaio ligneo del salone, sansoviniano, oscillante e pericoloso. Con loro ci sono Tullio e Giorgio Bano, padre e fratello di Roberto, che invece è a Treviso, dove insegna, e da lì viene richiamato. Forza il blocco della polizia e con un amico raggiunge in barca Villa Sagredo, aggrappandosi ai rami per spingersi nell’acqua melmosa, piena di animali morti, cisterne di gasolio emerse, sterpaglie, rami, botti in legno. «Quando arrivo in prossimità della villa, sopra un albero trovo Elio Brasola», ricorsa Roberto Bano. «È un mio amico, è un ciclista famoso. Era stato in villa per portare in salvo un paio dei suoi animali, ma al ritorno si è salvato dai vortici arrampicandosi su una pianta». La mamma di Roberto è in salvo al primo piano della casa di famiglia. «Entriamo direttamente dalla finestra del primo piano, ci cambiamo, poi risaliamo in barca per raggiungere mio padre e mio fratello a palazzo Sagredo. I tori, a quel punto, stanno già facendo festa. Ma ne manca uno, il più grande. Perciò i tre Bano montano sulla barca, raggiungono la stalla stendendosi sul fondo dello scafo per riuscire a passare dall’arco d’ingresso - visto che l’acqua è già a due metri e mezzo - e nel silenzio della stalla allagata sentono il respiro del toro, ancora legato, ma in piedi sulla mangiatoia e con le narici, solo quelle, appena fuori dalla melma. Si immergono a turno, per tentare di liberarlo. La barca si ribalta. La girano, rimontano sopra, riescono a slacciargli la catena dal collo e tornano al palazzo. La mattina dopo, quando il sole illumina la campagna allagata, dalla finestra del salone nobile di Villa Sagredo si sente un muggito. È il toro liberato, che ha trovato salvezza arrampicandosi sulla scalinata di ingresso ed è rimasto in piedi, davanti alla porta, mentre l’acqua si abbassava. Salvo anche lui. Allora Bano, con la barca, si avvia a portare il latte ai vicini.
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