Renzo Piano: «La riscossa delle città partirà dalle periferie. Ma bisogna ascoltarle»

I giovani, le energie da liberare, la bellezza come cura e il linguaggio delle sardine. Il grande architetto: «A Padova ho trovato amici e affinità. Verrò presto a trovarvi»

GENOVA. Osservare, progettare, fare. Sarebbe tutto qui, senza segreti, il mestiere di costruire. Infatti Renzo Piano se ne va in giro con il metro in tasca anche per le cinque terrazze del suo studio affacciato sul mare. «Un architetto che non partisse dalla realtà per progettare sarebbe un cretino», attacca. «Ma anche un giornalista lo sarebbe, no?». Pausa, il tempo di far depositare la frase. «Ecco, io non mi spiego perché la politica sia così incapace di ascoltare i bisogni». Quelli delle periferie, per esempio, a cui Piano, da senatore a vita, sta dedicando un progetto di rammendo - lo chiama così, fedele alla dimensione artigianale del suo lavoro - che convoca in prima linea le università. L’anno scorso Padova, Milano, Roma, Siracusa. Quest’anno ancora Padova con Bologna e Palermo. «La mia generazione e le successive hanno costruito muri per impedire ai ragazzi di venire avanti? Beh, a me piace aprire porte. E metterci il piede per impedire che qualcuno le chiuda».

Il Progetto G124 ha uno schema tanto semplice quanto rivoluzionario. Si ascoltano le richieste dei quartieri di periferia, si individuano micro-interventi, si fanno i lavori in pochi mesi.

«La modestia degli interventi non è importante. Quello che conta è seminare qualcosa, innescare un contagio. Sono prove di creatività che rimbalzano, ed è necessario raccontarle. La narrazione è fondamentale anche per smentire chi parla di un’Italia disastrata. Questo è un paese straordinario, pieno di energie. Qui dietro stanno costruendo un ponte in dodici mesi, a giugno sarà pronto E non lo dico perché ho fatto io il disegno».

Però il G124 porta il suo nome. E tutti si aspettano grandi opere.

«Io metto a disposizione la mia esperienza, protagonisti sono i ragazzi. Giochiamo a ping pong con le mie e le loro idee. Poi, certo, io non lo faccio con la mano sinistra, ci penso ogni giorno, vado nei posti».

Le periferie hanno cucita addosso un’etichetta di luoghi brutti.

«E lo sono, molto spesso. Perché sono state costruite senza amore. Ma non sono solo quello e non sono neppure così male. Intanto dovremmo smettere di chiamarle così e usare la definizione di città metropolitane. E poi sarebbe ora che la politica se ne occupasse, anche perché il destino delle città passa da lì. Infatti il grande tema oggi è il recupero, così come negli anni ’50 e ’60 era la salvaguardia dei centri storici, che io amo ma che forse abbiamo tutelato fin troppo, infatti sono diventati centri commerciali all’aperto».



Perché dice che il destino delle città passa dalle periferie?

«Perché è lì che abita l’80 per cento della popolazione. Sono i luoghi dei giovani, delle energie. È lì che ci sono i desideri, le aspirazioni, la voglia di riscatto. Certo, ci sono anche i pericoli, ma è normale dove c’è energia. E non è solo di rammendo che hanno bisogno questi quartieri. A Saint Denis abbiamo appena costruito il grande tribunale di Parigi, ora ci sono tremila magistrati. Bisogna portare le funzioni fuori dal centro».

Quanto tempo ci vorrà?

«La politica è lenta e non so neanche perché. Di questo passo ci vorranno cinquant’anni. Sei anni fa, alla prova di maturità, un terzo degli studenti scelse il tema sul rammendo delle periferie. Quei ragazzi probabilmente non abitavano in centro. Anche quello era un segnale chiaro, ma non è stato colto».

E si torna al problema dell’ascolto, della distanza tra realtà e politica...

«La realtà è la più profonda e autentica e originale fonte di ispirazione. Non è un caso se a Los Angeles sono innamorati del cinema italiano, del suo neorealismo. Ieri ero con gli scienziati del Cern e anche per loro l’ispirazione è l’atomo. Un politico che non guarda la realtà si priva dell’ispirazione. Ma per fortuna qualcuno lo capisce».

Chi, per esempio?

«Le sardine sono capaci di guardare la realtà. E hanno la risposta giusta. Un linguaggio che non è solo di protesta, che non contiene rabbia. È bellezza che cresce su un terreno che non è quello del rancore».

Qualcuno sostiene che abbiano già esaurito la loro missione.

«È sarà smentito. Sono una boccata d’ossigeno. Esistono. Quel mare (e indica il golfo di Genova, ndr) ne è pieno».

La bellezza è la risposta?

«Lo è sempre. E non parlo di bellezza in senso estetico. Penso all’aspirazione alla bellezza che mi accomuna con le persone che sto conoscendo sul percorso di questo progetto. Certi incontri non sono casuali. Ci sono vite vissute in separazione ma sulle stesse frequenze. Poi ci si riconosce perché si ha in comune la stessa voglia di società e di solidarietà. Con il team dell’università di Padova c’è quest’amicizia che è una sorta di affinità elettiva. Sembra di conoscersi da sempre».

Nelle università ci sono potenzialità inespresse? Lei le ha definite energie ribelli.

«C’è la curiosità, la voglia di esplorare. Per questo, quando il presidente Napolitano mi aveva chiamato per propormi la nomina a senatore a vita, ho pensato subito che avrei voluto lavorare con i ragazzi e per le periferie. In fondo anche io vengo da una periferia e conosco quella voglia di riscatto. E da Dakar ad Harlem, tanti miei progetti si sono occupati di luoghi ai margini».

A proposito, come va l’esperienza da senatore?

«Io vado poco in aula, ma mi impegno con questo progetto e mi è permesso di portarlo avanti a modo mio. Questo era il patto. Il mio posto è a 50 metri dall’aula, piano 1, stanza 24 (da qui il nome del progetto, ndr) e lo stipendio da senatore mi consente di finanziare tutto quello che facciamo».

Con il professor Edoardo Narne lei ha un’amicizia ormai solida, un anno di G124 alle spalle e altri due davanti. La vedremo di nuovo a Padova?

«Credo proprio di sì. Non potrò proprio fare a meno di tornarci». E sigilla la promessa con un sorriso. —

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