Sacra e struggente La natura di Segantini

di Virginia Baradel
In vita era considerato un gigante, lo amavano ricchi banchieri e poeti squattrinati. Sapeva cogliere l’aria gelida del mattino e richiamare le tenebre all’arrivo del temporale; sapeva dar corpo roccioso alla montagna e, allo stesso tempo, trasfigurarla nell’estremo simbolo di purezza, di elevazione. Cantò la sacralità della natura e della maternità contadina. Certo la sensibilità del tempo stimolava forti sentimenti e investimenti simbolici sul tema, visto che la modernità stava spazzando via la campagna con tutte le sue natività. Ma Giovanni Segantini di suo ci metteva l’essere orfano e poverissimo, votato alla pittura e alla famiglia che portava con sé in case sempre più immerse nella natura: in Brianza prima e poi in Svizzera, a Savognino e in Engadina.
La natura andava osservata nel suo massimo splendore di luce e integrità, andava riprodotta al grado più elevato, quand’anche fedele, di sincerità, inseguita sino alle quote dove appare abbagliante e sterminata, scorrendo dalla resa mimetica al misticismo.
Milano fu la città di formazione del giovane originario di Arco di Trento che, dopo molti travagli, riformatorio compreso, riuscì anche a studiare all’Accademia di Brera. Ora Milano gli dedica a Palazzo Reale (fino al 18 gennaio, prodotta dal Comune e da Skira e curata da Annie-Paule Quinsac con la pronipote Diana Segantini) una grande mostra, documentata in modo eccellente e con molti inediti.
La partenza cattura come una calamita: ci sono gli autoritratti che consentono di cogliere il mutamento di stile dal tardonaturalismo al simbolismo, senza mai perdere l’aura da santone, tra Rasputin e Klimt, che Segantini coltivava non senza compiacimento. L’avvio della sua pittura è lombardo al modo parigino, pur senza aver mai potuto mettere piede a Parigi (figurava come austriaco renitente alla leva).
Dipinti come “Nevicata sul Naviglio” o il “Ritratto della signora Torelli” dimostrano come fosse matura e del tutto originale nel giovane pittore, la crisi del naturalismo, lo sfaldamento del modellato figurativo a favore della pennellata sintetica, giocata su forti contrasti di luce e ombra.
Legato al gallerista e mecenate Vittore Grubicy ma sempre più insofferente dell’ambiente cittadino, Segantini si trasferisce in Brianza nel 1882. Data a quel tempo l’avvento della sommessa epopea delle giovani contadine che pascolano le pecore, districano i bozzoli, governano alla stanga le mucche dal manto lucente, raccolgono le patate in fila contro la luce livida dell’alba che non ha ancora vinto la notte, in uno scenario da ouverture wagneriana. E arriviamo ai capolavori più noti, l’“Ave Maria a trasbordo”, “Le due madri”, “Ritorno dal bosco”: la luce calda del tramonto, quella fioca della lampada a petrolio, quella abbacinante della neve, esigono un diverso filare dei colori che restituisca la poesia, tenera e malinconica, dell’abbandono, così come il senso panico della natura. Imbrigliare la vastità della luce e dei suoi infiniti riverberi sulle cose lo porta a sviluppare e dominare l’idioma divisionista e a darne una versione arditamente simbolista che traghetta la Scapigliatura verso il Futurismo. Nella mostra di Milano i grandi dipinti eseguiti sulle Alpi svizzere sono ben illuminati dalla luce che esce da una mensola sotto il dipinto: un ottimo sistema per godere dello stupefacente assieparsi di filamenti di colore, della vibrazione che producono e che sembra inghiottire lo sguardo. La maternità tornerà fuori prepotentemente nell’ultimo periodo simbolista: per una madre fanciulla seduta su un trono d’albero in “L’angelo della vita”, vagano a mezz’aria tra i tormenti le “Cattive madri” destinate a perenne infelicità su alberi spogli. Il suo ultimo inverno arriverà a quarantun anni quando verrà colpito da un attacco di peritonite sul ghiacciaio dello Schafberg. Vi era andato inseguendo il sogno di realizzare, per l’Esposizione Universale di Parigi, un’opera sconfinata dal titolo “Panorama”, poi ridotta al maestoso e incompiuto “Trittico delle Alpi”: come dire che la sua vita si fermò a un passo dall’impossibile nell’autunno del 1899, a un soffio dal secolo che avrebbe addomesticato l’impossibile.
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