La lotta per la vita degli invisibili, tra freddo e droghe
Esistenze al limite dei senzatetto di via Nancy a Padova. La storia di un disperato: «Ho iniziato con la cocaina per lavorare di più. Poi mi sono ritrovato a vivere in strada»

«La prima cosa che faccio la mattina è controllare di essere vivo. Mi do una scrollata, e se sento un freddo cane significa che mi tocca tirare avanti ancora un giorno».
Le parole di Abraham finiscono in una risata che ha un doppio sapore di sconfitta e consapevolezza.
Il senso di sconfitta è quello di sapere di essersi svegliato ancora una volta in strada, sotto a uno dei portici di via Nancy, da solo, al gelo. Un incubo.
La consapevolezza è quella di sapere che l’intera giornata di fronte a sé sarà impegnata nel recuperare il denaro necessario per comprare abbastanza cocaina per arrivare a sera.
Ma c’è di più dietro allo sguardo dell’uomo che abbiamo di fronte, i suoi occhi sono svegli, vigili. Sa che la sua dipendenza è una catena che lo tiene agganciato a quella strada che tanto odia, ma che ormai ha imparato a chiamare casa. Lo fa capire con poche parole.
«Questa merda è l’unica cosa che aiuta ad andare avanti», sostiene Abraham reggendo una pipa che ha costruito artigianalmente per fumare crack – un piccolo oggetto d’arte, a modo suo.
Quella parola, merda, esce dalle sue labbra con tono di disgusto, disprezzo. E anche tanta vergogna.
Nel suo bivacco sotto i portici di palazzo Inps di via Nancy conserva tutto il suo mondo.
Uno spesso strato di coperte posato su un vecchio materasso, una collezione di accendini, alcuni cucchiai, un rotolo quasi esaurito di carta-alluminio, e alcune paia di riserva di calzini e scarpe.
Ma non è sempre stata così. La storia di Abraham fa eco con quella di altri senzatetto che vivono nel bivacco con lui. Condividono quei pochi metri quadrati per scaldarsi nelle notti più fredde, o fare numero contro le minacce del mondo esterno.
Sono tutte storie che passano per un fallimento: la perdita di un lavoro, una separazione, la perdita di famigliari. Le persone con cui parliamo non sono falliti, quanto, piuttosto, dei sopravvissuti.
I padovani li incrociano quando passano, li guardano chi con pietà chi con paura e disprezzo. I bivacchi sono una ferita sociale, i bivaccanti sono uomini con storie da ascoltare.
«In Tunisia facevo il muratore. Ero bravo. Ma si guadagnava male e non si lavorava abbastanza. Roba che facevi due mesi in cantiere e poi magari i tre dopo stavi a casa», racconta Abraham, in Italia dal 2002.
«Avevo degli amici del mio paese che erano venuti a Padova per lavorare – continua l’uomo – e mi hanno convinto a seguirli. Ho lavorato per un po’ come muratore anche qui. Ovvio, sì, in nero. Che credi che assumono uno come me?», osserva Abraham sogghignando.
Quindi aggiunge: «Mi hanno fatto lavorare tanto. Uno schifo, capisci. Lavoravo un sacco. Qualcuno mi ha fatto provare la cocaina. Beh, questa merda qua insomma (indica la pipa). Doveva darmi più energia. Ma eccomi qua. Mi hanno lasciato a casa e sono finito a vivere in sto schifo».
Semidisteso sul vecchio materasso Abraham è un cumulo di pelle e ossa. Più che vivere di espedienti, in pratica sopravvive a una vita che cerca ogni giorno di distruggerlo. Il freddo invernale è il peggiore dei nemici, silenzioso e sempre in agguato. Ma non l’unico.
Altre persone che vivono in strada diventano spesso rivali in quel gioco in cui sopravvive il più forte.
Come con Bamboo, il trentaduenne fermato da un poliziotto con un colpo di pistola alla gamba mentre si aggirava per via Nancy con un’accetta.
«Per fortuna non lo vediamo più in giro. Era una bestia quando si faceva di coca, hanno fatto bene a fermarlo», ripete Abraham giorni dopo la vicenda. Qualche giorno prima un altro senzatetto era stato preso a colpi di scure da Bamboo, uscendone fortunatamente illeso.
L’altro pericolo viene dalla droga e da tutta la sinfonia stonata di pericoli che implica. In primo luogo la dipendenza, che porta Abraham (e tanti altri nelle sue condizioni) a cercare ogni soluzione pur di soddisfare quel bisogno.
Anche a costo di commettere qualche piccolo reato: «La mattina vado in stazione. C’è sempre qualcuno di distratto che lascia cose in giro, incustodite. Eh, che ci faccio io? Se vuoi capire, capisci», spiega.
Dopo un attimo di silenzio e una tirata di pipa, prosegue: «A pranzo vado alle cucine popolari, ma è spesso un delirio perché c’è un sacco di gente fuori di testa come Bamboo. E la sera mi tocca farmi di questa roba, perché quando arriva il buio la strada fa paura. Altro che uomo nero, è da farsela addosso», conclude Abraham con la sua inconfondibile risata.
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