«Si è persa la capacità di capire i bisogni»

Poli: «Per innovare non basta solo fare estetica. Ikea? Produce a basso costo qualcosa che sembra vero ma non lo è»

“Prego, s’accomodi. Le presento il miglior design italiano” titolava uno speciale dell’Europeo nel 2007. Colore, ossessioni, semplicità: la storia del made in Italy era tutta lì, condensata in 400 pagine di icone e stile. Ma cos’è rimasto di quell’Italia creativa? «Abbiamo perso marchi e imprese ma soprattutto consapevolezza storica: quel film, che dal ‘700 a oggi ha segnato con linearità la tradizione mobiliare italiana, se n’è andato a favore di una estemporaneità che trasuda di banale. Il nostro patrimonio storico e quella sensazione di fare parte di una famiglia, l’essere coinvolto in un nucleo di tradizione, se n’è andato. E abbiamo lasciato dietro anche un pezzo di memoria». Franco Poli è un designer che ha lavorato per le più importanti aziende del settore, da Bernini a Poltrona Frau, esponendo le sue creazioni in tutto il mondo. Padovano di nascita, oggi vive e lavora a Verona progettando, viaggiando e dando senso al mercato.

Cos’è il design oggi?

«Il design è un bisogno che va indagato in modo analitico per scoprire qualcosa di nuovo. Così è stato nei tempi».

In pratica?

«Nel design italiano si è sempre rivisto l’oggetto partendo da zero, dal bisogno. Ciò ha permesso di trovare nuove soluzioni reali ai bisogni, fondando nuovi linguaggi. E ogni forma è un linguaggio».

Non siamo, quindi, più in grado di capire i bisogni?

«Bisogna cambiare dentro non solo fare estetica. Siamo pieni di progetti senza significato che non criticano l’esistente. E poi non si disegna più perché i software permettono visualizzazioni rapide e convincenti... visualizzazioni senza spessore.  Ma i progetti complessi hanno bisogno del tempo di approfondimento».

 Colpa di chi?

«Delle mamme che non liberano i figli che sono troppo controllati, delle scuole che hanno perso incisività, del mercato che sta smarrendo la capacità critica».

Colpa anche del modello Ikea?

«Ikea è necessità di produrre a basso costo qualcosa che non è vero ma lo sembra. Ma continuano ad aprire e a vendere. La crisi  ci ha insegnato solo a morire e in alcuni casi ad affilare qualche canino. Nessuno però si è interrogato sul peccato originale. Non ho visto idee di remissione».

Un segnale di ottimismo? «Qualcosa si sta muovendo e gli spazi di mercato sono più ampi del passato. C’è voglia di rinascita e grande agitazione nella conquista. Ma anche nuove generazioni di colleghi che iniziano la professione. Resta il grosso blocco della capacità di progetto, del perché lo fai, con chi e per chi lo fai. Ma soprattutto la capacità di inventare radicalmente un prodotto».

Come si risolve?

«Scuola, scuola, scuola. E se il pubblico manca, la via è anglosassone. Le grandi aziende hanno sempre formato i loro giovani».

  E le piccole, quelle artigiane?

«Oggi l’artigiano ha in mano il problema reale e fa quello che il designer non è più in grado di fare ovvero non accontentarsi dell’estetica e far funzionare la sua creazione con capacità critica. E abbiamo tanto bisogno di autocritica». 

Eleonora Vallin

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