Sì, ho battuto Montanelli

«Era il papa del giornalismo ma sbagliò i conti, e la linea»
 
Mercoledì arriva in libreria «Il Vittorioso» (Marsilio, 264 pagine, 17,50 euro), una biografia-intervista di Vittorio Feltri, scritta da Stefano Lorenzetto, che ha per sottotitolo «Confessioni del direttore che ha inventato il gioco delle copie». Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo l'inizio del capitolo in cui Feltri racconta del suo rapporto con Indro Montanelli.
di Stefano Lorenzetto  Montanelli soffrì di depressione a partire dai 12 anni. Mai però per le basse tirature del Giornale.  «Credo che non gli interessasse molto la gestione economica».  Quando il capo della diffusione un giorno entrò timidamente nell'ufficio di Indro per avvertirlo che le vendite erano scese a 120 mila copie, il direttore alzò distrattamente gli occhi dalla Olivetti Lettera 22 e gli disse: "Troppe. Vuol dire che stiamo sbagliando giornale".  «Per lui Il Giornale era una Onlus, questa è la verità»  I tuoi rapporti con Montanelli erano cordiali, affettuosi...  «I Marco Travaglio di turno riportano soltanto cose sgradevoli sui miei rapporti con Indro. Tu sei stato testimone del contrario. Indro mi ha chiesto molti favori, "assumi questo, fa scrivere quello", anche lui aveva qualcuno che gli stava a cuore, è normale, e io l'ho sempre accontentato. Era una persona molto gradevole, molto signorile. Quando lavoravo al Corriere, sono spesso venuto in questo ufficio a intervistarlo. Di me si fidava. Una volta la segretaria Iside Frigerio mi fece accomodare in sala d'attesa. Stavo lì da pochi minuti quando sentii una voce rauca che mi diceva: "Stronzo, testa di cazzo"».  Era Montanelli?  «No, un merlo indiano parlante, chiuso dentro una gabbia che non avevo notato. Poi seppi che glielo aveva affidato Angelo Rizzoli prima di andare in prigione, nel febbraio 1983».  "Era il Papa del giornalismo, il più bravo di tutti", hai commentato alla sua morte. Ma lui che cosa pensava di te?  «Ah be', questo non lo so. Rammento però che in un'intervista dichiarò che, leggendo i miei pezzi, vi trovava qualcosa di familiare».  Quando ti definiscono l'erede di Montanelli, nel tuo intimo quale reazione hai?  «Non provo soddisfazione, perché non è così. Lui aveva qualità che io non ho. Dire che mi dispiaccia sarebbe ipocrita. Ma dentro di me so che non è vero».  Nel 1995, dopo che lo avevi sostituito alla direzione del quotidiano da lui fondato, Montanelli ebbe a dire di te: "Il suo Giornale confesso che non lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferisce non vedere. Comunque, non è la formula ad avere successo, è la posizione: Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti!"  «E' esattamente quello che fece Montanelli per tutta la vita, tant'è che riuscì persino a diventare un'icona della sinistra. Io mi sono limitato a adottare la sua formula giornalistica. Ma l'ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Walter Veltroni: "Sì ma anche". Non si schierava nettamente, il suo editoriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo».  Lo cercasti dopo che Berlusconi ti aveva offerto la sua poltrona?  «Mi cercò lui. Andò così. Il primo giorno, 15 gennaio 1994, arrivai qui, in quello che era stato il suo ufficetto, e non trovai nulla, neppure la macchina per scrivere... Il giorno dopo arrivai in redazione e mi riferirono che mi aveva cercato Montanelli. Lo feci richiamare al telefono. Lui mi diede il benvenuto e si complimentò per l'editoriale: "Mi è molto piaciuto. Mi spiace soltanto di non averlo scritto io"».  Ma dopo due mesi cominciò la guerra con La Voce.  «Davano per scontato che ci avrebbero ammazzato. Non Montanelli, che non era il tipo: i suoi colonnelli. Dicevano che i migliori se n'erano andati nel nuovo giornale. Noi eravamo considerati dei paria che avrebbero fatto una brutta fine... Però dentro di me intuivo che l'entourage di Indro puntava a fare un quotidiano con una linea un po' lib-lab, assolutamente diversa da quella che aveva tenuto qui, anzi più lab che lib, di sinistra, cavalcando un antiberlusconismo spinto. Questo fece sì che La Voce diventasse la fotocopia della Repubblica e del Corriere».  A me Luciano Benetton nel giugno 1995 confessò d'averci investito a fondo perduto circa 2 miliardi di lire.  «Infatti La Voce chiuse perché vendeva appena 30-40.000 copie. Eppure cinque anni dopo, mentre stavo per aprire Libero, incontrai per caso Montanelli in un ristorante di Milano che si chiama Al Porto. Prima di andarsene, venne al mio tavolo: "Ho saputo che fondi un giornale tuo e ti dico che ce la farai, perché tu, a differenza di me, sai far di conto". Era ancora persuaso che l'insuccesso della Voce fosse stato determinato da questioni contabili, da un buco di bilancio, anziché da una scelta di campo sbagliata, disastrosa, che aveva contraddetto la linea politica tenuta per una vita. Mi raccomandò anche di rimanere sempre magro».

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