Sola, in bici, dalla Patagonia all’Alaska

C’è Robin Davidson, ragazza che 25 anni (nel 1977) attraversa il deserto centrale australiano: 2700 chilometri da Alice Springs all’Oceano Indiano, a piedi, portandosi dietro due cammelli. Il suo viaggio diventò un reportage pubblicato da National Geograhic e un film, “Tracks. Attraverso il deserto». Perché lo fai? Le chiedevano. E lei, con disarmante semplicità: «Perché no?». E c’è l’americana Cheryl Strayed che negli anni Novanta, a 24 anni, schiantata dalla morte della madre, dal fallimento del matrimonio e dalla dipendenza dall’eroina, ritrova la vita attraversando a piedi il Pacific Crest Trail, dal Messico al Canada (1600 chilometri in due mesi). Il suo viaggio è diventato il film “Wild”, sceneggiatura di Nick Hornby. A chi le chiedeva, perché lo fai? Lei rispondeva: «Per riprendermi la mia vita, per tornare nel mondo».
E poi, ma solo in ordine cronologico, c’è Michela Ton, 44 anni, di Limena, che vive quasi sempre in montagna, lavorando come in rifugi o simili, e corre nel vento in mountain bike. Fa anche gare, e le vince. Lei e la sua bicicletta («la mia amica») nell’agosto 2010 sono partite da Ushuaia, a sud della Patagonia e dopo dodici mesi e 22 mila chilometri (deviazioni comprese) sono arrivate a Prudhoe Bay, in cima all’Alaska. Se un regista, ma uno bravo, si innamorerà di lei e del suo viaggio, sarà un grande film.
Anche su Michela tante volte è piovuta la solita domanda: Perché? «Perché avevo bisogno di vita». Punto.
Quei 370 giorni di pedalate, sofferenza, estasi, contatti umani struggenti e veri, amicizie profonde, febbre e dissenteria, senza una lira (non ha voluto sponsor, «il viaggio non avrebbe avuto la stessa valenza», spiega), senza mai chiedere aiuto – ché il carattere della ragazza è assai tosto – ma ogni sera incontrando un giardino dove dormire in sicurezza e un piatto caldo, quei 370 giorni Michela li ha raccontati in un libro: “Patagonia-Alaska solo andata”, pubblicato da Innuendo. Ottantasei pagine estratte dai quattro grossi diari di viaggio, solo una piccola parte dello strepitoso universo di persone e luoghi incontrati attraversando Patagonia, Argentina, Cile, Perù, le Ande, Ecuador, Colombia, Panama, Costarica, Nicaragua. Honduras, El Salvador. E poi il Messico, e vale la pena un inciso, tratto dal libro di Michela: «Le donne che ho incontrato lì sono persone meravigliose, comprendono le difficoltà, aiutano; molte volte mi hanno detto che i loro figli sono in America per lavoro e la loro speranza è che siano trattati bene così come loro hanno fatto con me. Mentre con gli uomini avevo capito che più sporca e più puzzolente ero, meno attenzioni avevo, così decisi di non lavarmi le cose e tenermi sempre coperta con i miei quattro stracci sporchi e scoloriti».
A la Paz, in Bassa Califiornia, Michela arriva stremata dopo settimane di febbre, diarrea, dolori, qualche sorso di Coca Cola al giorno e basta. L’ennesimo incontro con la provvidenza ha il nome di Heber, 70 anni: «La sua casa del ciclista era un piccolo spazio ricavato nel suo negozio di parrucchiere, era entusiasta di avere ospiti, di rendersi utile». La vita di Heber è un romanzo, uno dei tanti che Michela ha avuto occhi e cuore per scovare e “leggere” durante il suo giro di mezzo mondo: a 18 anni voleva fare il torero, i genitori lo fermarono; lui scappò, finì in strada per anni. Poi si arruolò, mise assieme un po’ di soldi e finalmente divenne torero. Un famoso torero. «Hai in mano la tua vita. Vivila!», dice a Michela, con le lacrime che rotolano giù, nel momento dell’addio. Porgendole una lettera e la foto di un gabbiano. A Heber, che non c’è più, è dedicato il libro.
E poi l’America. California, Arizona, Utah, Wyoming, Idaho, Montana e su. E, come per tutto il viaggio, la risorsa di ospitalità casuali ma non capitate per caso. L’ospitalità di Carol che «resteremo per sempre sorelle nel cuore»; di Ashley, ragazza madre, la sera a fare le matte in bici nel centro del paese; di chi le offre soldi che lei puntualmente non accetta («datemi piuttosto un caffè o un pezzo di pane»); di Linda con il diabete, la casa piena di cioccolata e un grande peso sul cuore che ospita Michela durante tre giorni di pioggia torrenziale o Robert che aveva fatto il Vietnam, come fibbia della cintura aveva un coltello e, quando lei riparte, la aspetta un tot di chilometri più avanti, sulla sua Volvo ammaccata, con due tazze e un bricco di caffè in mano. Per l’ultimo saluto. Un mondo amico quello che Michela ha trovato, o meglio si è guadagnata, in un viaggio dentro sé stessa che l’ha rivoltata come un calzino.
E intanto arriva il Canada, mesi di pedalate sulle montagne a dividere la cena con gli scoiattoli, a trovarsi a due metri da un orso, molte notti in sacco a pelo molte all’asciutto, in casa di qualche famiglia. E’ il 4 luglio 2011 quando Michela e la sua bicicletta arrivano davanti al cartello “Welcome to Alaska”. Ogni santo giorno, che fosse in Patagonia o nello Utah, nel parco di Yellostone o in Guatemala, c’era chi le rivolgeva la stessa domanda, sempre quella: «Domani dove vai?». Sempre la stessa anche la risposta: «Bifore I go, tomorrow I dont’t know”, prima vado, domani non lo so.
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