Talismani: il racconto di Matteo Porru vincitore del Campiello Giovani 2019

Matteo Porru, nato a Roma, 19 anni, vive a Cagliari. Con il racconto “Talismani” ha vinto il Campiello Giovani 2019. Con La Zattera ha pubblicato “The mission” (2017), “Quando sarai grande” (2018) e “Madre ombra” (2019). Studia al Liceo classico, collabora con testate giornalistiche online e cartacee. D di Repubblica lo inserisce fra i 25 under 25 più promettenti al mondo.

Il silenzio è un boato di anime.
Qualcuno canta laggiù, chi un salat, chi una ninna nanna, allegre e monotone tiritere che arrivano intermittenti, a salti, come vecchi neon che balenano un paio di volte prima di accendersi; quelle preghiere chiedono che Allah le ascolti, che i bambini dormano, che le vecchie non tremino di freddo e di terrore al solo pensiero, recondito ma istintivo, di essere sole. Gli incubi, nella vita e nei sogni, stanno addosso a quelle poche centinaia di anime a trentasei chilometri a nord-est di Khost, un posto tanto dimenticato da Dio e dagli uomini da essere segnato sulle carte a matita, tutt’al più senza nome o con un asterisco scarabocchiato. L’unica sicurezza davanti a tanto deserto è la sola consolazione di quelle persone che, fatte a pezzi dall’opprimente regime talebano, non vedendo niente intorno a loro se non un lungo e spento mare di pietre, lanciano lo sguardo in alto, al cielo. E sotto tutte quelle stelle, quel lucernario puntiforme, quello sconfinato squarcio di universo, non resta loro niente di cui aver paura. Ma se prestano attenzione o solo un orecchio a quel silenzio, l’eco delle loro fobie si ingigantisce nei loro cuori come in macabre casse di risonanza. Il battito accelerato dà il tempo a quel concerto distratto, a quei problemi che non sanno nemmeno chi li abbia, a chi appartengano. È la noncuranza a dominare su quelle anime, il palese tentativo di dimenticare quelle giornate, quegli strazi, quel vuoto e insensato vivere.
Latifa continuava a rigirarsi nel letto abbracciandosi le spalle, muoveva nervosamente i piedi con le calze rosse, strofinava la guancia su una coperta che, a dirla tutta, non la scaldava nemmeno. No, non aveva freddo, né paura. Ormai si era rassegnata: Dadullah, che più che un marito era stato un assiduo fecondatore, con la sua morte aveva fatto valere quella donna meno di quanto valesse già prima, strappandole di dosso perfino il dignitoso vivere che era riuscita tanto strenuamente a ottenere. Il cognato, che era stata obbligata a sposare, era morto da neanche due mesi, il che le
aveva conferito anche il titolo di iettatrice, rendendo quel fertile grembo materno un cimitero di speranze e di futuro destinato di lì a poco a decomporsi. Le creature, una mezza dozzina, erano state rinchiuse in un centro di assistenza sociale, un tugurio tenuto in piedi per miracolo; la madre le vedeva quotidianamente ma con un distacco umano enorme. Quella gamma di piccolezze, i sorrisi dei bubusettete e i pianti di una notte intera, le poppate e gli abbracci, le canzoni stonate; il solo scontato e straordinario darsi una carezza, una mano, un minuto o anche due per parlare insieme, tutto questo Latifa non lo aveva e le mancava terribilmente. E rimpiangeva quella dorata povertà, quel semplice quotidiano, il trasformare un momento in ricordo.
Mohammed era il terzo figlio, un metro e trenta per diciotto chili, sei anni e mezzo taciturni e sorprendentemente riservati. Un bambino introverso, lui, ma molto attento agli ambienti: mai una volta sorpreso, mai sgridato, fuori da ogni possibile situazione equivoca, la sua vita era un costante barcamenarsi fra coetanei e dicerie: che fosse muto, nato male o addirittura castrato. Le uniche cose che uscivano da quel bambino erano urla immotivate, lacrime e chiazze di sangue per le frequenti epistassi. Sognava sempre lo stesso incubo: la madre stesa a terra con il viso incrostato di sangue e saliva e le gambe ricolme di lividi; il padre dietro con una mazza di legno e sudore e insania che grondavano dalle sopracciglia; l’urlo di donna, di madre, di cavia, “Scappa, Mohè, scappa!”. E lui non scappava. E quando si svegliava, la madre era ancora lì, sulla destra del letto, dietro una porta alla quale ogni tanto bussava per vedere se lui la sentisse. Certo, che la sentiva. Avrebbero potuto mettere una muraglia fra i due, un continente, un pianeta intero. La loro sinergia non aveva ostacoli: lui era l’unico a chiamarla mamma e lei l’unica a chiamarlo figlio. Quell’esclusiva intimità andava avanti forzata ma regolare, si erano abituati tutti agli orari dei distacchi e a quelli in cui vedere la madre. Era stata la direttrice dell’istituto, Farah, l’unico bagliore di affetto in quel temporale notturno. Non se ne accorse subito, se non circa un anno dopo, che aveva davanti il più grande capitale umano, tanto straordinario, per la potenza distruttiva di quegli abbracci, al punto che le
pupille della donna si spalancavano gonfiandosi e puntando le nuvole, come mongolfiere. Farah imparò a notare l’assenza di Latifa che lacerava quei pargoli e i loro sorrisi sdentati alla sola vista della madre. E madre si sentì anche lei, come per i gemelli che aveva perso al terzo mese, poco tempo prima. Li adottò col cuore, quei bambini, levandosi di dosso l’orrenda patina da direttrice che non le si addiceva né per presenza né tantomeno caratterialmente: mai avrebbe impedito a Latifa di andare dai suoi figli e fece in modo che nessuno potesse impedirlo. Cambiò perfino i ragazzi di stanza perché potessero essere più vicini, come pure gli orari di visita perché si ritrovassero insieme; cambiò tutto per quella famiglia. Ma i tempi no, quelli non cambiarono: i talebani soppressero la struttura convertendola in orfanotrofio, rendendo tutti i bambini potenzialmente adottabili e ponendo strategicamente alla direzione dello stabile Mufan, un gigante pervertito. Nulla poté Latifa davanti a quel disastro, al crollo delle ultime tracce di vita che le rimanevano. Non essere più madre la logorò da dentro, divorando ogni cosa, snaturandola del tutto. Fu una deflagrazione, e se fino a quel momento aveva resistito e lottato per avere anche solo un abbraccio dai suoi figli, il cratere che rimase le tatuò nel cuore la consapevolezza di non avere più niente per cui esistere. E le mancava l’aria e cercava un senso a tutto quel male, a tutta quella impotenza, rassegnandosi, più di quanto non lo fosse già, alla realtà ingiusta che ancora e sempre l’avrebbe tormentata. Fino a quella notte.
Al silenzio delle ore piccole si sostituì, quasi all’improvviso, un urlo di dolore e di conati. Latifa e Farah si svegliarono di colpo, quasi come se quelle grida avessero fatto da colonna sonora ai loro sogni. Indossarono trafelate le vesti, correndo in strada. Si trovarono una davanti all’altra senza saperlo neppure, ma avevano capito entrambe che era Mohè a gridare, a cento metri da loro. Quasi aveva le convulsioni, il bambino, rimbalzava da terra come un pesce appena pescato e con l’amo incarnato nelle branchie; con l’aria che aveva in corpo urlava, quella che inspirava la buttava fuori sputando sangue. L’aveva lasciato agonizzare fuori dalla porta, Mufan, ché la notte non
l’avrebbe passata e il giorno dopo l’istituto avrebbe avuto una bocca in meno da sfamare, una mano in meno da bacchettare, una faccia d’oro in meno da far piangere. Latifa si accasciò ai piedi del figlio, col terrore di muoverlo per non fargli male; gli vide i denti imbrattati di rosso, la pancia paurosamente gonfia, chiese aiuto urlando più forte di quanto Mohè piangesse. Farah corse via quasi per non voler assistere a quella morte, lasciando sola una mamma che per un istante, uno soltanto, la ritenne codarda. Tornò trafelata dieci minuti dopo, spingendo con le braccia una carriola ancora piena di pietre e tenendo a tracolla una borsa con acqua e cibo halal, da sola: nessuno, in quel villaggio, aveva voluto ascoltare le grida di aiuto. Sollevarono Mohè insieme, adagiandolo con quanta più delicatezza possibile sul fondo della carriola. Latifa prese i manici e guardò la donna, spaventata e sbigottita, con uno sguardo intenso ma incerto: e adesso?
***

“Khost, portiamolo a Khost!”
Quanto fa male l’urlo di un bambino lo può sapere solo sua madre. Camminarono in due, nel niente, con urla disumane a far da coro e un senso di smarrimento e resa, pensando che non ce l’avrebbero fatta, che Khost era troppo lontana, che ogni luce, seppur fioca, che si trovavano davanti, era un vano e istantaneo miraggio. Ma la forza, insita e inspiegabile, di quella madre scalza, distrutta dal dolore e dal non vedere nemmeno un segno o una casa, attraversava il silenzio di pietra con una carriola rubata e un figlioletto morente che gemeva a ogni scossone. Squarciava il silenzio, quello strazio, ma mai quanto Latifa distrutta, provata e al limite dell’umano, che continuava imperterrita a ripetere al figlio che sarebbe andato tutto bene. Per due eterni giorni, senza un attimo di interruzione, con tre bottiglie d’acqua, senza un tentennamento, lei ripeteva che sarebbe andato tutto bene. Nel buio di due notti, con le lacrime ghiacciate sugli zigomi come per un’inspiegabile galaverna, fra urla di aiuto ad auto mai fermate e imprecazioni e preghiere e silenzi, fu quella frase a salvarli: quella sicurezza infusa, insensata ma necessaria, che all’alba del giorno dopo avrebbero trovato pace per quel carnaio di pene.
L’ultimo imbrunire, fu quello che li distrusse: Latifa si tolse l’unico scialle che aveva addosso, imbrattato di sudore, lo diede a Mohè come coperta perché si riscaldasse e trovasse la forza per urlare ancora. E quelle grida innocenti si fecero poco a poco più tenui, silenti, come in una fatale dissolvenza in nero. La donna lo chiamò, scuotendo la carriola per far sì che si muovesse ma lui non reagiva; urlava a squarciagola e mentre lo faceva le sue gambe lentamente si accasciavano sul fondo. Fermò il carretto e gli prese la testa, fredda e sanguinante e gli pianse addosso. Ma fu quando sarebbe stata pronta a schiaffeggiarlo per farlo rivivere, e quelle botte sarebbero state le ultime carezze, che si accorse che si era addormentato. Mohè aveva un respiro lento, stremato, ma era vivo. Quello spiffero che lasciavano passare le narici ridiede a Latifa la forza di una buriana: l’unico modo per non tremare sarebbe stato camminare a passo spedito, quella notte. E anche qualora non avessero trovato niente oltre quell’ultima riga blu tratteggiata a pastello sopra l’orizzonte, sapevano di aver lottato contro tutto quel male con umanità e coraggio.
All’alba videro Khost, videro la sede di Medici Senza Frontiere quando Mohè smise di dormire e iniziò a impazzire dal dolore. Si guardarono entrambe, quasi sicure che quella fatica non avrebbe portato a niente. L’angoscia e solo quella, nei minuti successivi, spinse le donne verso la città. Sventolarono lo scialle di Farah in modo disperato, correndo con quanta più energia possibile verso i primi abitanti che si erano accorti della situazione. I piedi diventarono ruote, le voci la sirena di quell’ambulanza di ventura. Intorno alle donne, si radunò una folla, bambini e vecchi, un coro di sostegno e umanità che quasi diresse quelle disperate verso il presidio medico. Portarono dentro Mohè e le due si accasciarono semisvenute, soccorse pure loro, disidratate e deboli. Intorno un concerto di applausi, grida di gioia, gratitudine per quelle due eroine.
Mohè lo accudirono con tutte le cure possibili ma lì non avrebbero potuto fare più di quanto
avevano già fatto. L’unica soluzione per salvare la vita a quel bambino, ripresosi dal dolore ma bisognoso di cure appropriate, era un volo umanitario da Kabul a Roma. Non glielo dissero, ma Latifa capì subito che si sarebbero dovuti separare a lungo e lo lasciò andare. Allah ascoltò le loro preghiere. Poco prima del decollo, la madre diede a Mohammed un amuleto che lei aveva addosso dal giorno del suo primo compleanno: una catenella stretta al collo, benedetta. L’avrebbe protetto, l’avrebbe seguito, sarebbe tornato con lui qualora fosse stato bene. Le due donne furono riportate nel nulla dal quale erano coraggiosamente emerse, tornando alla loro vita silenziosa.
Le cure romane, sebbene efficaci, richiedevano molto più tempo di quello previsto. La soluzione migliore per Mohè sarebbe stata, senza dubbio, trovare una famiglia a cui appoggiarsi, un punto di riferimento. Quando glielo dissero, Latifa chiuse la porta d’istinto, tanto provata da quel messaggio da non avere nemmeno la forza di piangere. Aveva paura di non rivederlo, di non poterlo più stringere a sè. Fu allora che la parte materna di lei si disintossicò da quei rimpianti futuri e pensò all’unica cosa veramente importante: Mohè. Uscì dalla porta rassegnata, con troppe domande in testa, che in quel trambusto di ricordi e piccolezze non trovavano risposte. Fu allora che pregò e lo fece con tutto l’amore e il dolore che aveva dentro: che quel bambino dagli occhi color montagne e i capelli ricci, se non suo figlio, potesse essere figlio di Allah, del bene, di chiunque gliene avrebbe voluto.
La sala d’attesa del tribunale dei minori di Roma vedeva schierate le sole due famiglie che si erano rese disponibili: a destra i Martelli, Fulvio e Maria Rosaria, entrambi cinquantenni di Ciampino, due persone acqua e sapone che tanto desideravano compagnia in quel loro triste trilocale. A sinistra, gli Esposito, Carmela e Rosario, di Posillipo, ferventi cattolici e tifosi di Ferrara e Maradona, superstiziosi ma soprattutto due persone dal cuore d’oro.
Convocate entrambe e presentato il piccolo Mohè, la coppia romana si ritirò in modo discreto e abbastanza veloce: non si sentivano pronti ad accudire un bambino in così gravi difficoltà. Dello stesso parere era Rosario, ma Carmela no, lei quel bambino lo sentì suo.
Mohammed non parlava italiano se non due parole in croce che gli erano state insegnate in reparto, la sua pancia era un mosaico intricatissimo di punti di sutura e la prospettiva di guarigione non era del tutto sicura. Eppure, quella donna se ne innamorò, quasi folgorata dal silenzio di quel bambino.
“Rosà, questo è figlio a me!”
L’iter burocratico fu veloce, firme congiunte e qualche formalità. La vita di Mohè passò per un tritacarte che la ridusse a strisce di carta macchiate a penna. Le sue radici sradicate, il suo passato dissolto, sua madre scomparsa agli atti ma viva nei suoi ricordi. Così nacque, nel tardo pomeriggio del 6 ottobre, Ciro Armando Esposito, crasi dei due campioni, rinato in una famiglia che lo accolse con tutto l’amore possibile.
I giorni successivi, però, non furono facili. Gli occhi di quel bambino afghano guardarono il reparto come una bianca e opprimente prigione, strilli e intermittenti bip di flebo. Pensò di essere all’inferno e da quell’inferno lui voleva scappare: ogni pomeriggio, appena Carmela cedeva al sonno, Ciro strappava la cannula e correva verso la porta, urlando con quanta più voce possibile per farsi aprire dal mondo: nessuno gli aprì mai. A ogni fuga una precauzione, a ogni flebo una fasciatura più spessa. Ridussero quel bambino a un cumulo di garze e soluzione fisiologica. Si arrese, lui, come dovesse scontare quella punizione. Ma in aiuto al musulmano venne il cattolicesimo: l’arrivo inatteso del Vicario del Papa sospese temporaneamente ogni terapia e l’intero reparto si precipitò ad accoglierlo dall’ala est, lasciando la porta incustodita. Ciro prese la rincorsa e la aprì con la mano in cui era inserita la cannula. Corse giù per le scale, nel deserto più totale, senza una voce né un uomo che stesse di guardia. Uscì dal reparto ed entrò nel giardino dove Rosario diventò color borotalco appena lo vide. Lo inseguirono in cinque, finendo poi per accerchiarlo e afferrandogli gambe e mani. Nessuno del comitato di benvenuto si accorse di niente e il giro del Vicario continuò senza intoppi.
***

Le dimissioni arrivarono sia per il buono stato di salute del ragazzo sia per il terrore che scappasse ancora. Uscì dall’inferno, Ciro, dopo aver finalmente espiato quel peccato sconosciuto. Saliti in macchina, Carmela gli carezzò la guancia.
“Andiamo a casa, Ciro!”
Al bambino si illuminarono gli occhi come fuochi d’artificio. Sarebbe stato un viaggio lungo, ma tornare da mamma valeva ogni odissea che si potesse affrontare. I primi dubbi però iniziarono a venirgli quando lentamente l’auto uscì dall’autostrada. Pensò a una sosta, Ciro, ma fu quando la macchina si fermò che capì che a casa lui non ci sarebbe mai tornato. Fissò i due impietrito, cercando di capire dove fosse e quanto a lungo sarebbe dovuto rimanere là. Rosario e Carmela si guardarono complici.
“Cirarmà -disse Rosario-, questa è Napoli. Questa è casa tua.”
Cirarmà si slacciò la cintura, uscì dalla macchina disorientato e confuso, poi un rumore lo fece girare di scatto, d’istinto. E vide il mare, lo ebbe quasi addosso. Quella lunga costa di spiagge, di porti, di barche a vela, il Castel Dell’Ovo davanti al Tirreno, il Vesuvio enorme che va a caccia di nuvole; vide un’infinita distesa di case, di cose, di vite e di tutto quell’arazzo di colori e sfumature non sentì nulla se non il vento. Che cosa strana, il vento: è una carezza che fa rumore. Carmela gli poggiò la mano sulla spalla, lui la guardò esterrefatto ed entrambi poi volsero gli occhi al panorama.
“Ora c’hai casa in paradiso, Cirarmà.”
Appena entrato nell’appartamento, Carmela gli preparò la doccia, lui rise per tutto il tempo sotto l’acqua calda. Tra i suoi vestiti, la donna notò l’amuleto di Latifa e, quasi d’istinto, lo portò via. L’intera famiglia, fino all’ultimo ramoscello genealogico ancora in vita, fu convocata per la cena più abbondante, sontuosa e variegata che gli occhi di Mohè avessero mai visto. Lui non capiva nemmeno una parola di quell’italiano misto a napoletano, di quella gente che lo chiamava
Cirarmà, nè mangiò più di tanto da tutto quel ben di Dio, ma sorrideva. Perchè quel mondo opposto a quello in cui aveva vissuto lo affascinava. Perchè Napoli, quella gente che senza un perché era accorsa a dargli una carezza, un regalo, un bacio sulla guancia, lo facevano stare bene. Fu allora che capì che Napoli aveva cuore. E lui la conobbe, quella città: Napoli signora che sorvola le luci, le case, gli amanti e i tramonti dentro i loro occhi; che fa da colonna sonora con i vocii dei passanti, dei turisti, i tintinnii delle tazzine da caffè; che dà emozioni che nessuno potrebbe descrivere, raccontare, simulare: Mohè imparò a sentirle, come parole dette sottovoce. Napoli è fatta di chiacchiere e campane a festa, di giri, di due passi; di biancheria stesa fra i balconi, del Tirreno davanti e del maestrale addosso; di San Gennaro e della tramontana, dell’insonnia delle luci e delle case, delle favole dei bambini e del loro segreto inseguire chimere. Le inseguì anche Ciro, non appena capì che quel mondo variopinto sarebbe diventato suo.
Il regalo di quell’incontro fu un bracciale fatto di peperoncini, un portafortuna, glielo misero sul polso sinistro con formule di scongiura. Il talismano di Latifa, Carmela lo aveva già preso. Dopo qualche giorno, però, Ciro iniziò a cercarlo invano, blaterando parole incomprensibili mentre girava da una parte all’altra della casa. Trovatolo, si vide davanti Carmela, confusa da quel suo atteggiamento. Mohè la guardò nervoso.
“Mamma.”
“Dimmi, Cirarmà, che c’è?”
“No, mamma.”
L’appartenenza: fu in quel momento che la scoprì, che prese coscienza del fatto che di là, oltre quel ditino di Mohè che indicava il cielo, c’era una donna, una madre che fino a poco prima era stata sua. E che a lui mancava terribilmente.
Non era carne della sua carne, ma il bene che Carmela voleva a Ciro era incondizionato e puro. Quel tentativo di mascherare un passato lontano non avrebbe portato a niente se non a un
riaffiorare incontrollato, chissà quanti anni dopo. Glielo ridiede, l’amuleto, e fece di tutto per recuperare informazioni sulla sua famiglia ma ogni porta che tentò di aprire era chiusa dall’interno. Decise di sfondarle tutte. La lettera, tradotta, la spedì a Khost, alla sede di Medici Senza Frontiere, affinché la inoltrassero rispettando il reciproco anonimato: due madri accomunate da un bambino, sconosciute l’una all’altra. Ma la missiva che Carmela spedì dall’altra parte del mondo, dove c’era però un pezzo di quello di Ciro, fu rispedita al mittente: il regime aveva serrato i controlli sulla corrispondenza, bloccando ogni tipo di lettera e fotografia. Ma i pacchi, quelli li lasciava andare. Fu così che la donna decise di inviare quell’unico oggetto, quel talismano, come garanzia che Mohè stava bene, che era al sicuro e che da quel momento e per sempre sarebbe stato protetto.
Latifa fu svegliata dal rumore del camion. Quella scatola di cartone era per lei, non ne aveva mai avuta una tutta sua. Quel ciondolo lo prese in mano, facendolo scorrere fra le dita, dubbiosa se piangere o ridere. Fece entrambe le cose e fu uno sfogo tutto umano. Da quel momento, il contatto che avevano stabilito l’avrebbero mantenuto sempre. Se ne inviarono a decine, di amuleti, uno al mese, per proteggere quel bambino con l’unione di Napoli, Allah e San Gennaro; con l’affetto di due donne, di due madri, di due voci per la favola della buonanotte. Carmela amava raccontargliene una.
C’era una volta un deserto lontano, gente taciturna e sola che neanche sapeva di vivere; e un altro mondo, colorato e meraviglioso, vivace e socievole. Due universi che mai avrebbero potuto scontrarsi se non per amore. Un urto violento, difficile, a tratti ingiusto. E un eroe che li conosceva e amava entrambi, che aveva imparato a parlare e a tacere, il chiaroscuro della vita, i viaggi che non finiscono mai. E aveva capito che qualunque cosa fosse successa, avrebbe avuto due mondi in cui rifugiarsi, due vite da vivere. Ma il suo superpotere erano i due talismani che portava al collo: cielo e mare, opposti intoccabili che la notte quasi sembrano uguali: era nel buio, negli incubi diventati sogni, nel firmamento diventato oceano, che l’eroe si muoveva, in quella convergenza parallela che rende una realtà specchio dell’altra. Il talismano portava la notte, la stellata del paese senza nome e le luci di Napoli; unificava i silenzi, le voci, le culture. In quell’istante dove nessuno potrebbe trovare un punto fisso, nel cuore del buio, dove nessun colore riesce a entrare, è lì il regno di quell’eroe e a ogni imbrunire ci si prepara per entrarci.
Dopo due anni, nessun talismano giunse più dall’Afghanistan, nessun messaggio, nessun segno, nessuna notizia. Carmela faceva finta di riceverlo, lo dava al Mohè cresciuto e che ogni volta saltava di gioia e tornava nella sua notte e abbracciava la madre. Un pomeriggio di ottobre suonarono alla porta, andò Rosario ad aprire. Il postino lasciò un pacco, da Khost, da Farah: un grazie scritto in pashtu e due calze rosse.
Mohè guardò il cielo.
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