Tempra da combattente maestro di impegno civile
PADOVA. Questa è la vita: «Una lunga storia da narrare». Era stato lui a proporre l’immagine, qualche tempo fa, in uno degli eventi dedicati a quell’Oic di cui si stanno celebrando i sessant’anni. La sua, Angelo Ferro ha continuato a narrarla fino all’ultimo, con un’energia interiore capace di tener testa alla devastante malattia che lo incalzava. E continua, continuerà a farlo anche adesso che non c’è più: perché ciò che ha tenacemente seminato produrrà un raccolto ininterrotto di opere e di legami. Tenuti assieme da un pensiero di fondo che potrebbe costituire la sintesi della sua eredità spirituale: la vita non sono io, la vita siamo noi.
Certo non è facile arrivarci: ci vuole una tempra da combattenti veri. E Ferro lo è sempre stato nei tanti versanti dell’impegno civile e sociale in cui si è speso. L’ha fatto in politica: a fine anni Sessanta, giovane consigliere comunale, era stato l’unico assieme ad Ettore Bentsik a rompere la disciplina di partito imposta da una Democrazia cristiana incartapecorita sulla vicenda del nuovo museo; e ce ne voleva, allora, per mettersi in urta con l’establishment.
L’ha ribadito molti anni dopo, quando non ha accolto le proposte di candidature che gli arrivavano da una politica animata da troppi collezionisti di figurine. L’ha dimostrato in economia: presidente degli industriali padovani nella prima metà degli anni Ottanta, aveva saputo cogliere con anticipo il tarlo del degrado che stava erodendo dall’interno il sistema dei partiti, e l’aveva segnalato rinunciando a ogni opportunistico collateralismo.
L’ha sperimentato su più fronti del sociale: dove ha insistito con ostinazione a spiegare che anche l’economia può e deve avere un’anima, e soprattutto a dimostrarlo nei fatti. Come nella battaglia in Confindustria per considerare l’handicap una risorsa non un limite; ribadita nella lunga stagione in cui ha presieduto l’organismo nazionale degli imprenditori e dirigenti cattolici. O nei dieci anni in cui ha gestito una realtà come l’Opera della Divina Provvidenza. E in particolare, naturalmente, con quella sua creatura dell’Opera Immacolata Concezione che ha accompagnato per mano nella crescita. E sulla quale ha continuato a costruire progetti e iniziative davvero fino all’ultimo; con una capacità di coinvolgimento alla quale era impossibile negarsi.
Dalle banche alle aziende, dall’università all’editoria, c’è stato da protagonista non per accumulare cariche e prebende come altri deprecabili personaggi, ma per piantare i paletti di un percorso dove è la dignità dell’uomo a fare da bussola. Ma conta molto ricordare le radici: che l’hanno visto crescere nel contesto di fede e di opere di quell’Antonianum da cui tanta classe dirigente padovana e veneta ha tratto alimento e ispirazione, e al quale è rimasto per sempre legato.
E anche ad alcune sue filiazioni più significative: come quel rugby che ti insegna quanta fatica, quante energie, quanto spirito di squadra occorrano per andare in meta. Di lui si potrebbero dire tante cose e proporre tante angolature; lo faranno in molti, e ne uscirà di certo un racconto collettivo capace di rendere giustizia a una personalità così complessa e trainante.
E tuttavia, c’è una qualità sommersa che più di ogni altra connota la statura delle persone: la capacità di convivere con la debolezza, la sofferenza, la morte stessa; tanto più oggi, in una società che rimuove il limite, lo nasconde, arriva a negarlo, in nome di una presunta onnipotenza che in realtà maschera un’angosciante paura.
Ecco: questo soprattutto va sottolineato di Angelo Ferro proprio nel momento in cui si conclude la sua vicenda umana; e c’è da credere che a lui stesso farebbe piacere sentirselo riconoscere, perché è stata la sua ragione di essere. La capacità di accettare la fragilità e di trasformarla in risorsa, ma prima ancora in lezione di vita: da cui «soffia quell’impeto di solidarietà verso chi soffre, quella voglia di essere vicino a chi è colpito da emergenze negative», per ricorrere ancora una volta a parole sue. E un misterioso destino l’ha condotto per mano fino a dover sperimentare su se stesso questa condizione profondamente umana: gli va dato atto di averlo saputo farlo con coraggio e coerenza esemplari.
Di lui ha suggerito di recente un “grande vecchio” rimasto tra i pochi a saperci parlare dell’essenza delle cose, Vittorino Andreoli: da credente qual era, Angelo probabilmente guardava spesso a quel cielo di cui nell’“Ode alla gioia” Schiller canta l’invito, «girate per il cielo perché da qualche parte dev’esserci Dio».
E suggeriva Andreoli: «Ma sono convinto che egli alza gli occhi al cielo dopo aver guardato molto attentamente nei vicoli della terra e persino nei vicoli bui, quelli dimenticati dentro le periferie non delle città, ma dell’umanità». È soprattutto questa moltitudine silenziosa degli ultimi, con cui ha voluto condividere un’intera esistenza, ad accompagnarlo oggi nell’ultimo miglio della sua via dolorosa. Rendendogli più leggero il cammino.
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