Teneva in schiavitù i lavoratori reclutati per lavorare in cooperative per la grande distribuzione: denunciato imprenditore

Per un anno non potrà esercitare la sua attività: sequestrati tre immobili e beni per 750 mila euro. Con lui nei guai altri 15 collaboratori. Facevano venire in Italia i lavoratori, prevalentemente indiani, e qui li sfruttavano

PADOVA. Sfruttava il lavoro degli stranieri reclutati con la promessa di occupazione e guadagno. Di fatto una volta in Italia con la sua organizzazione li obbligava a una situazione di quasi schiavitù chiedendo soldi e costringendoli ad abitare in case messe a disposizione della sua organizzazione.

Il tutto fino a oggi 5 agosto quando la Finanza ha fermato lui e i suoi collaboratori. Nella giornata odierna, al termine di complesse indagini dirette dalla locale Procura della Repubblica, i Finanzieri del Comando Provinciale di Padova, con il supporto di altri reparti del Corpo, hanno dato esecuzione un’ordinanza, che ha disposto la misure  del divieto temporaneo di esercitare imprenditoriale per un anno nei confronti del promotore di un’associazione per delinquere finalizzata all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro, e al contestuale sequestro di beni e disponibilità finanziarie per oltre 750 mila euro. 

Le indagini svolte dai militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Padova, che hanno visto il coinvolgimento di 15 indagati per lo più indiani, di cui 7 destinatari del  provvedimento cautelare personale e reale, distinti tra promotore, organizzatori e partecipi, hanno permesso di fermare un’associazione per delinquere capeggiata da un cittadino indiano, residente da tempo nel Padovano, con ramificazioni in diverse città (Alessandria, Mantova, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Parma, Bologna, Forlì-Cesena, Arezzo Perugia e Lecce), dedita allo sfruttamento di numerosi lavoratori - principalmente connazionali, ma anche bengalesi e pakistani. Gli accertamenti svolti, avvalendosi anche della collaborazione dei funzionari dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Padova, hanno consentito di constatare che l’organizzazione  si occupava, innanzitutto, del reclutamento della manodopera tra soggetti stranieri in stato di bisogno o necessità presenti sia sul territorio nazionale, sia - soprattutto - nello stato indiano del Rajasthan, dove emissari dell’associazione criminale - familiari del capo dell’organizzazione - attingevano manovalanza dalle fasce più povere della popolazione rurale, prospettando migliori condizioni di vita e lavorative a fronte del pagamento di un’ingente somma, di cui un anticipo da corrispondere in madrepatria e il resto mensilmente, una volta intrapresa l’attività lavorativa in Italia.

Quanto lasciato dai ladri dopo la razzia in un appartamento di via Cavour
Quanto lasciato dai ladri dopo la razzia in un appartamento di via Cavour

Appena giunti sul territorio nazionale, i lavoratori ottenevano un regolare permesso di soggiorno grazie all’immediata assunzione in cooperative fornitrici di forza-lavoro per la gestione di magazzini della grande distribuzione, siti principalmente nel nord Italia, ma anche in Toscana, Umbria e Puglia. I lavoratori, infatti, erano sottoposti alla pressante vigilanza dell’organizzazione, che dislocava in ogni cooperativa un fidato sodale con il compito di spegnere, con la minaccia e talvolta con l’uso della forza, ogni tentativo di protesta o ribellione, controllando anche la fruizione di ferie o permessi, nonché disincentivando l’eventuale adesione a organizzazioni sindacali.

Il clima di costante intimidazione era alimentato anche dal timore di possibili ritorsioni sui familiari rimasti in India. La soggezione delle vittime si manifestava anche fuori dai luoghi di lavoro: gli stessi – già gravati dalla necessità di mantenere le famiglie d’origine - erano costrette a restituire le ingenti somme dovute per l’ingresso e l’ottenimento dell’impiego in Italia, nonché obbligate a dimorare in abitazioni messe a disposizione degli organizzatori dell’associazione, spesso in situazioni alloggiative degradanti, per essere sottoposti a un controllo stringente fino al  soddisfacimento della pretesa economica.

Il consistente profitto dell’organizzazione era assicurato dal denaro contante prelevato direttamente dai conti correnti dei lavoratori sfruttati, di cui l’associazione poteva disporre autonomamente, nonché dal rimborso forzoso delle spese di vitto e alloggio che rendevano, di fatto, indissolubile il legame tra il lavoratore sfruttato e gli indagati, che si protraeva anche dopo l’estinzione del debito iniziale. Tale profitto veniva in parte trasferito in India e in parte utilizzato per l’acquisto di ulteriori abitazioni da destinare a dimora obbligata dei lavoratori, in modo da alimentare e accrescere il sistema di sfruttamento della manodopera.

La stima dei soggetti reclutati e impiegati sul territorio padovano con il sistema del “caporalato” è risultata ammontare a oltre 100 unità, fermo restando che non è possibile determinare in maniera compiuta il numero di tali maestranze, spesso trasferite nelle varie sedi delle cooperative coinvolte.

Al termine delle indagini, su richiesta della Procura della Repubblica di Padova, il gip ha emesso un provvedimento di interdizione dall’esercizio dell’attività imprenditoriale nei confronti del promotore dell’associazione, disponendo il sequestro di 3 immobili siti nella provincia di Padova, utilizzati per ospitare i lavoratori reclutati, nonché di ulteriori beni e disponibilità finanziarie, per un valore complessivo di oltre 750 mila euro.

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