Trent' anni fa la strage del rapido 904: le testimonianze e le indagini

VERNIO. Alle 19,08 del 23 dicembre 1984, due valige piene di esplosivo collocate sulla rete portapacchi del corridoio della carrozza numero 9 del rapido 904, partito d Napoli intorno a mezzanotte e diretto a Milano, esplodono azionate da un sistema di trasmissione radiocomandato "tarato" per esplodere in galleria. La bomba confezionata con il Semtex scoppia quando il rapido che ha imboccato la "Direttissima" a Vernio - 18 chilometri di tunnel - è a 8 chilometri dall'imbocco, a 10 dall'uscita a San Benedetto Val di Sambro: un inferno di fuoco, dolore, morte e lamiere.
Sono passati trent'anni dalla "Strage di Natale" ma chi quella notte ha prestato soccorso non ha dimenticato: l'odore acre di sangue e di carne bruciata, di fumo, il terrore negli occhi dei superstiti che vagano nella galleria senza più luce, le grida, i pianti, i resti umani, le due bambole trovate tra le lamiere che sono diventate il simbolo della strage a matrice mafiosa-terroristica.

Tre i pratesi che entrarono nella galleria, quando il vento che soffiava da nord verso sud impedendo l'accesso ai soccorritori toscani nelle prime ore dopo l'attentato, si acquietò: Luciano Rescazzi, responsabile della protezione civile all' unione dei comuni, il medico Andrea Saccardi di Montepiano e il ferroviere Andrea Marzoppi. Nessuno di loro era di servizio quella notte ma tutti e tre partirono immediatamente per raggiungere la stazione di Vernio.
"Non mi scorderò mai quella sera - racconta Rescazzi - stavo facendo la doccia e suonò il telefono era il responsabile della Misericordia di San Quirico che mi chiedeva di andare immediatamente a Vernio, era successo qualcosa di grave in galleria". Le comunicazioni erano difficoltose, la linea aera interrotta e quindi fino a quando non venne istituito un ponte radio (a crearlo fu Marcello Fiesoli un radioamatore di Vaiano) non si riuscì a capire bene l'entità del disastro. "Fui fra i primi ad arrivare, attrezzammo un centoporte, una carrozza speciale per prestare soccorsi, e provammo ad entrare, ma dopo qualche chilometro dovemmo tornare indietro, non eravamo attrezzati c'era buio, l'aria irrespirabile". Rescazzi andò alla sede della comunità montana e prese delle torce e alcune maschere antigas.
Riorganizzò una nuova spedizione di cui fece parte anche il medico Saccardi. "Mi chiamarono perché cercavano un medico, così partii da Montepiano - ricorda - e quando arrivai in stazione salii insieme a un altro collega, a un giovane carabiniere e ai vigili del fuoco sul carrello che ci portò al treno. L'ultimo chilometro lo abbiamo fatto a piedi, via via che ci avvicinavamo sembra di essere in guerra: lamiere, pezzi di corpi sparsi, odore di bruciato. Sono sensazioni che non si possono scordare". I feriti più gravi erano già stati trasportati fuori, ma qualcuno vagava ancora dentro la galleria. "Arrivai alla carrozza 9 e vidi una bambola e inorridii".
Anche il ferroviere Marzoppi ha ancora stampato nella memoria il bambolotto. Lavorò quasi 24 ore all'interno della galleria per aiutare a ripristinare la linea elettrica e a ripulire. "Mi venne assegnato il compito di raccogliere tutti gli oggetti e i resti umani. Poi dovevo spruzzare la calce viva. Raccattai di tutto: dita, braccia, vidi gente raggomitolata e divisa in due dentro la carrozza 9. Tutti erano neri e completamente nudi: la forza dell' esplosione aveva svestito tutti i passeggeri. Vidi le valige aperte con gli effetti personali sparsi: tutto si era bloccato in quel momento terribile".
Nella strage perdono la vita 17 persone, due bambini, i feriti sono 267. A coordinare le indagini, in un primo tempo affidate ai magistrati di Bologna, è l'allora pm di Firenze Pierluigi Vigna: un testimone afferma di aver visto un uomo collocare le due valige nella carrozza 9 alla stazione di Firenze, per questo la competenza passa di mano. Un anno di indagini, poi la svolta: nel 1985 vengono arresti in una casa di Rieti in un'indagine per traffico di droga il cassiere della mafia palermitana Pippo Calò e Guido Cercola: oltre a un chilo di eroina nel covo vengono ritrovati antenne, armi ed esplosivi. Dalle perizie emerge che l'esplosivo scoperto nella casa di Rieti ha la stessa composizione di quello usato nell'attentato di Natale.
Emergono collegamenti tra mafia, camorra, eversione neofascista napoletana, Banda della Magliana e P2 e le testimonianze che disegnano lo scenario terroristico-mafioso-eversivo sono raccolte dal giudice Giovanni Falcone che nel 1985 istruisce il maxi processo contro Cosa Nostra. Anni di inchieste e di processi, con un annullamento in Cassazione del giudice Corrado Carnevale, poi le condanne definitive di Calò e Cercola fino ad arrivare nel 2011, all'incriminazione da parte della procura di Napoli, grazie alle rivelazioni di alcuni pentiti di camorra, del capo di Cosa Nostra Totò Riina come mandante della strage (processo iniziato il 25 novembre di quest'anno con un'udienza a porte chiuse).

La strage di Natale - affermano i magistrati - è il primo episodio della strategia stragista di Riina che proseguirà negli anni Novanta con gli attentati di Firenze, Roma e Milano, che punta a contrastare l'attività di indagine contro Cosa Nostra e il maxi processo in tutte le sue fasi, facendo passare le bombe di mafia per stragi di Stato. E' nella seconda udienza del processo a Riina difeso dall’avvocato fiorentino Luca Cianferoni che emerge qualcosa di più. Secondo i periti esplosivisti la miscela usata sul 904 è la stessa utilizzata nel 1992 nell'attentato in via D'Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta e sono state trovate analogie col materiale usato a Capaci (dove morirono Giovanni Falcone e sua moglie) e con le stragi in continente del 1993 a Roma, Milano e Firenze.
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