Trentotto anni fa la liberazione di Dozier a Padova. Papalia: «Fu l’inizio della fine delle Br»

PADOVA. Trentotto anni, e sembra un secolo. Quartiere Guizza a Padova, via Pindemonte 2 è un indirizzo che ha cambiato la storia di questo Paese. Un Paese che non è la città del Santo ma l’Italia. In un appartamento che corrisponde a quell’indirizzo il 28 gennaio 1982 è liberato il generale statunitense James Lee Dozier, comandante Nato dell’Europa meridionale, dopo 42 giorni di prigionia in mano alle Brigate Rosse. Nel covo fanno irruzione una decina di agenti dei Nocs, le teste di cuoio italiane. I terroristi che tengono a bada il prigioniero sono arrestati e qualche ora più tardi iniziano (quasi tutti) a parlare.
I protagonisti
Da allora a oggi il mondo è cambiato. E anche loro, i ragazzi del “covo”: Emanuela Frascella, la cui famiglia era proprietaria dell’abitazione, Antonio Savasta, Emilia Libera e Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, oggi (quasi) tutti liberi dopo aver pagato il conto con la giustizia. Anzi, con una nuova esistenza personale e professionale. Un tempo erano convinti di poter cambiare la società con la lotta armata; oggi sono uomini e donne profondamente diversi che vivono la quotidianità con riservatezza. «Non voglio dire nulla... Sono argomenti delicati e dolorosi per chi ci è passato» spiega al telefono gentile ma risoluta la dottoressa Frascella, medico che vive in Veneto.
«Fanno bene a restare in silenzio» commenta il consigliere Guido Papalia, 81 anni, fino al 2013 Procuratore generale a Brescia e in precedenza capo della Procura di Verona, titolare dell’inchiesta sul caso Dozier, «Tante ragazze e ragazzi erano stati messi da cattivi maestri su una strada senza via d’uscita». L’unico irriducibile è Di Lenardo, tuttora detenuto. «L’ho incontrato di nuovo negli ’90 quando mi occupai delle nuove Br. In quell’occasione lo ritrovai in carcere ancora più duro di prima: si rifiutò di stringermi la mano» ricorda il magistrato, «Di Lenardo si dichiarò fin da subito prigioniero politico, però informalmente mi raccontò delle cose. E prese atto che ci prendemmo cura di tutelarlo quando emerse che era stato torturato».
La vicenda
La liberazione del generale, rapito il 17 dicembre 1981 nella sua abitazione di Verona, suscitò il plauso perfino dell’allora presidente Usa Ronald Reagan. «Fino ad allora non era mai stato scoperto un covo di brigatisti con il sequestrato. Ecco perché fu un’operazione grandiosa, ricordata nei manuali di polizia americani» rammenta Papalia, senza dimenticare quelli che definisce «i punti neri della vicenda». Ovvero gli episodi di torture denunciati da alcuni terroristi, praticate dalla cosiddetta “squadra preposta alle maniere forti”, specialisti dell’interrogatorio duro a base di acqua e sale, o per le donne trattamenti ben peggiori. Una brutta pagina per la giustizia italiana, venuta alla luce grazie alle inchieste del giornalista Piervittorio Buffa, nel 1982 arrestato (poi assolto) per aver opposto il segreto professionale al pubblico ministero che gli chiedeva le fonti. «Punti neri» insiste il consigliere Papalia, sottolineando come la storia non possa essere riscritta. Insomma «non va messo in discussione il valore di quell’operazione che, da Padova, segnò la fine della Brigate Rosse. Il blitz si svolse senza spargere una goccia di sangue» continua. Una spallata alla porta, gli agenti speciali irrompono, di fronte cinque terroristi (tre uomini e due donne) disarmati (ma la casa era piena di bombe a mano) mentre uno di loro (Ciucci) punta una pistola alla tempia di Dozier in tuta, barba e capelli lunghi, una catena alla caviglia e una cuffia stereo incollata alle orecchie con musica a tutto volume (fu riscontrato un danno permanente all’udito). «Gli agenti avevano il mitra e non spararono. I terroristi furono colpiti da questo e si arresero: non accade quello che avvenne l’anno prima nel covo di Genova in via Fracchia (l'azione si concluse con un violento conflitto a fuoco e la morte di quattro brigatisti). Fu anche questo comportamento dei Nocs che convinse i brigatisti a collaborare» osserva Papalia, «Alle 11 di mattina tutto era concluso e nel primo pomeriggio Antonio Savasta era seduto davanti a me. Parlò del covo dove aveva sede il Comitato centrale delle Br a Milano in via Verga. Purtroppo la notizia trapelò nel telegiornale delle ore 20 e, quando fu fatta l’irruzione, non venne trovato più nessuno». In quell’appartamento era stato pianificato il rapimento Dozier. «Qualche mese dopo le Brigate Rosse dichiararono la ritirata strategica. Era l’inizio della fine per il terrorismo delle Brigate Rosse» conclude il consigliere Papalia, «Sembrava invincibile, e così non è stato. Certo era un terrorismo diverso da quello di oggi di stampo internazionale. Era legato al territorio e a un’ideologia politica, più facile da affrontare rispetto all’ideologia di matrice religiosa. E, soprattutto, non aveva collegamenti con pezzi dello Stato come quello di estrema destra sul quale, ancora oggi, non è stata fatta piena chiarezza» —
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