«Troppi impegni, non ce la faccio Bisogna ammettere i propri limiti»

l’intervista
Va bene la vocazione, la missione, l’amore, la passione nel diffondere ogni giorno la parola di Dio. Va bene tutto questo ma fare il prete è pur sempre un lavoro, oltre che una missione. E un lavoro stanca. E stressa. Soprattutto se lo si fa con passione e trasporto. Don Ulisse Zaggia, 48 anni, laureato in Farmacia, ordinato a quarant’anni, cappellano della Polizia di Stato a Padova, è uno dei migliori interpreti di questo modo di essere sacerdote. Per questo ora, anche se non si dà pace, deve fare un passo indietro. Insieme al vescovo Claudio Cipolla ha deciso di lasciare la parrocchia della Madonna Pellegrina dove è arrivato soltanto un anno fa. L’impegno, unito a quello di guida spirituale dei poliziotti padovani, è troppo gravoso. Il 28 ottobre prossimo celebrerà la sua prima messa nella nuova parrocchia, più piccola e dunque più gestibile. Quella del Torresino.
Don Ulisse, è così impegnativo fare il prete?
«Io non sono stressato e ci tengo a ribadire che a me fare il prete piace. Semplicemente la parrocchia della Madonna Pellegrina è un impegno troppo grande, che non riesco a combinare con il ruolo di cappellano della polizia».
Concretamente in cosa consiste il lavoro di cappellano della polizia?
«La figura di cappellano della polizia è stabilita da un accordo tra Chiesa e Ministero dell’Interno. Io devo svolgere 36 ore settimanali tra Reparto mobile di via D’Acquapendente e Questura. Significa che inizio alle 8 del mattino e termino intorno alle 15, ogni giorno».
Trascorre il suo tempo con i poliziotti?
«Si svolge una pastorale di prossimità. Incontro le persone, cerco un contatto umano, fornisco la mia assistenza spirituale a chi lo richiede. Maneggiano armi, fanno turni notturni. Vanno seguiti. Quando hanno bisogno ci devo essere, anche solo per una parola. Inoltre preparo gli agenti a matrimoni e battesimi. Insomma, sono il loro riferimento spirituale».
E il parroco della Madonna Pellegrina, invece, che tipo di impegni ha?
«Non è una mera questione di abitanti del quartiere, che comunque sono tanti. È l’impianto pastorale che è ricco e importante».
Cosa significa?
«Significa che il lavoro del prete è scandito anche dall’attività delle numerose realtà che ruotano attorno a quella chiesa. Ci sono gli scout, c’è la polisportiva Tre Garofani, l’azione cattolica, la scuola materna, il gruppo Caritas, i neocatecumenali, il centro di aiuto alla vita».
Ma non sono realtà indipendenti?
«Certamente sono realtà indipendenti ma il prete non può mancare. È una figura chiave che deve essere presente. Quasi dimenticavo, la chiesa della Madonna Pellegrina è anche Santuario Mariano, dunque meta di pellegrinaggi».
Lei è partito dalla piccola comunità di Stroppare di Pozzonovo.
«Ecco, quella era una parrocchia che riuscivo a mandare avanti nonostante l’attività di cappellano della polizia. Quando si è posta la questione del trasferimento a Padova, con il vescovo abbiamo deciso di provare. In fin dei conti la chiesa della Madonna Pellegrina si trova esattamente davanti al Reparto mobile della polizia. Nell’arco di questo anno però mi sono reso conto che l’impegno è troppo. Non ce la faccio».
È stata una decisione sofferta?
«Molto. Quel che più mi dispiace è lasciare una realtà così bella. Ma proprio perché è così bella merita di essere seguita come si deve».
È così sostanziale la differenza con la parrocchia del Torresino?
«Tutta un’altra realtà. È più piccola, ci sono meno gruppi che vi gravitano attorno. Credo che questo impegno si possa combinare perfettamente con gli altri impegni».
La notizia è piombata come un fulmine a ciel sereno nella comunità che ormai l’aveva accolta e amata.
«La comunità della Madonna Pellegrina ha capito benissimo il mio travaglio interiore in questo momento difficile. Io sono davvero dispiaciuto ma bisogna anche riconoscere i propri limiti, in piena onestà con se stessi e con i fedeli. Io credo di essermi comportato nel modo giusto». —
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