Umberto Cillo: «In provetta il futuro del trapianto di fegato»

Il docente guida un Centro di eccellenza dove si sperimentano nuove frontiere «Un tempo il cancro era una condanna a morte. Già oggi i pazienti vivono bene e a lungo»
CARRAI - EQUIPE DOTTOR CILLO
CARRAI - EQUIPE DOTTOR CILLO

di Aldo Comello

Il fegato si rigenera in quattro settimane. E’ una qualità atavica da cui si sviluppò una straordinaria duttilità dell’organo che, costituito da 8 segmenti, mantiene la sua funzionalità anche se viene ridotto chirurgicamente.Il professor Umberto Cillo, direttore dell’Unità operativa di chirurgia epatobiliare, rileva anche questa peculiarità relativa ad un organo, il fegato, di rara complessità. Gli chiediamo qual è il passo avanti determinante nella chirurgia dei tumori maligni che colpiscono il fegato.

«L’aver creato anche in Italia alcune realtà di ricerca, come il nostro centro, in cui è oggi disponibile tutto il ventaglio di diagnosi e terapie d’avanguardia nella gestione delle malattie chirurgiche del fegato e delle vie biliari. A Padova abbiamo realizzato un polo di alta specialità per la cura di queste malattie. Nel nostro reparto il ricorso alla chirurgia mini-invasiva è sempre più frequente, offrendo indiscutibili vantaggi, soprattutto, con la riduzione del dolore post-operatorio e con una degenza più breve. E’ diventata routine la pratica di resezioni epatiche laparoscopiche e di trattamenti termoablativi di tumori per via laparoscopica. Inoltre, abbiamo registrato negli ultimi cinque anni oltre 800 interventi di resezione epatica. Non solo, grazie all’esperienza maturata in vent’anni di trapianti di fegato, oltre 1000 quelli eseguiti, di cui 105 pediatrici, abbiamo esteso le indicazioni dell’intervento chirurgico con il ricorso alla chirurgia epatica avanzata nel tentativo di dare più chances a pazienti tradizionalmente definiti inoperabili. Nell’ultimo anno nel nostro Centro sono stati eseguiti tre autotrapianti e due sono in fase di programmazione».

Che cosa si intende con autotrapianto?

«L’autotrapianto del fegato prevede la completa rimozione dell’organo dalla cavità addominale. Il fegato rimosso viene posto in un sistema di perfusione continua in cui vengono eseguite le resezioni e le ricostruzioni vascolari necessarie per l’eliminazione del tumore. Quindi il fegato “ripulito” viene reimpiantato in addome. Si tratta di una tecnica a cui si ricorre solo quando non sia possibile raggiungere la parte malata dall’interno del corpo».

Che cos’è la laparoscopia del fegato?

«E’ un procedimento mini-invasivo: consiste nell’aprire due piccoli fori nell’addome e di intervenire sul tumore del fegato attraverso queste “finestre”. La videolaparoscopia è una metodica con la quale vengono eseguite resezioni epatiche e termoablazioni. Con la termoablazione le cellule tumorali vengono “bruciate”, distrutte con il calore. La terapia ablativa è conosciuta da tempo. In passato il tumore in un fegato cirrotico veniva curato con alcol puro. Una sorta di contrappasso: terapia alcolica per un organo spesso rovinato dall’alcol. Oggi l’ablazione si ottiene “bombardando” il tumore con il calore mediante radiofrequenze o microonde, le stesse del forno a microonde usato in cucina per riscaldare le vivande. Oggi il nostro Centro, uno dei pochi in Europa, dispone anche di una macchina in cui l’azione anticancro si ottiene per via elettrica».

Lei si riferisce all’elettroporazione. Che cos’è?

«E’ una nuova terapia sperimentale indicata solo in casi superselezionati. L’elettricità provoca l’apertura irreversibile dei pori delle membrane cellulari con la conseguenza dello svuotamento delle cellule tumorali che si disseccano e muoiono».

E’ un’alternativa alla chemioterapia?

«Diciamo che è una freccia in più che potrà essere scoccata solo in casi particolari. La chemioterapia resta un ausilio importante nel trattamento dei tumori del fegato».

Oggi il Centro dispone di un ventaglio sorprendente di innovazioni. Come si è arrivati ad una specializzazione così spinta?

«C’è stata un’evoluzione che parte dagli anni Settanta ad opera di maestri come Cevese e D’Amico che hanno portato alla creazione a Padova di centri di alta specialità, anche sul fegato. E oggi il nostro centro guarda ad una posizione di eccellenza europea».

Ma qual è la spinta?

«Una diagnosi di cancro maligno al fegato equivaleva ad una condanna a morte. Oggi possiamo curare molti di questi pazienti, si può incrementare la loro vita. E questo è estremamente gratificante».

Traguardi raggiunti dal Centro?

«Ne cito alcuni: primo trapianto di fegato da donatore vivente in Italia nel 1997; il più giovane trapiantato di fegato: un bimbo di 40 giorni di 2 chili e mezzo di peso. Il trapianto con maggiore sopravvivenza: 20 anni, dal marzo del 1991».

C’è un progetto all’orizzonte che dà speranza di futuro?

«Il progetto “fegato in provetta”, attraverso biomatrici e cellule staminali. Per ora è in corso la sperimentazione sui ratti. Il fegato del donatore è spogliato dalle cellule originali, ne viene utilizzato solo lo scheletro. E poi ripopolato con cellule staminali del ricevente che non provocano rigetto».

Poi c’è la grande partita dei trapianti: oltre 1000 in vent’anni di attività del centro. Quali problemi?

«Soprattutto quelli relativi all’enorme sforzo organizzativo. C’è la necessità di un nutritissimo numero di professionisti superqualificati, medici e paramedici, per rendere operativa, 365 giorni all’anno, questa macchina delicatissima. E non c’è spazio per errori. Ho sempre grande rispetto e riconoscenza per la “mia squadra” composta da 7 medici, 6 specializzandi e 3 dottorandi di ricerca. Si pensi, ad esempio, a quante volte l’equipe addetta al prelievo degli organi raggiunge i più diversi ospedali, a tutte le ore e con qualsiasi mezzo, per prelevare il fegato e ritornare in tempi strettissimi. Questo nostro carico fisico ed emotivo si traduce in una crescente “crisi di vocazioni” perché diminuisce il numero di giovani che si accostano a questa branca della chirurgia. Poi c’è il problema sempre scottante della carenza di donazioni. Per questo abbiamo sviluppato tecniche complesse come la tecnica “split”. Il fegato di un donatore adulto viene diviso in due parti:la più grande destinata a un ricevente adulto, la più piccola ad uno pediatrico».

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