«Vivo da emarginata per aver denunciato mio marito violento»
PADOVA. «Voi non sapete cosa vuol dire. Nessuno sa cosa vuol dire per una donna denunciare il marito per violenza. Me l’avevano detto al Centro antiviolenza di Padova al quale mi sono rivolta dopo essere andata dai carabinieri, me l’avevano detto: “sappia che potrà ritrovarsi ad avere tutti contro, che potrà ritrovarsi sola. I conoscenti e magari anche gli amici le gireranno le spalle. Deve saperlo ed essere forte».
E lei forte lo è stata, ha denunciato il marito nel 2016, è uscita da uno stato di schiavitù violenta ma ora si ritrova assediata dalla solitudine di chi esce da un deserto sociale, senza una rete solidale attorno, anzi. Ancora vittima, questa volta dei sussurri, delle occhiate, degli insulti («hai rovinato tuo marito») che emergono beceri dal suo circondario. È racconto e sfogo, quello di Maria (non è il suo nome, è padovana e questo è tutto: non renderla riconoscibile è un imperativo). Uno sfogo come a cercare consenso sociale a quello che ha fatto, la denuncia e il resto, un consenso che va da sé è universale ma che non arriva alla sua porta.
«Ho subito l’inferno e le botte per nove anni, ma nell’ultimo anno e mezzo ho capito chiaramente che era a rischio la vita, mia e soprattutto quella dei miei figli contro cui lui si accaniva in modo ormai incontrollato. Un’altra settimana e ci avrebbe ammazzato. Io questo lo so. E so anche che se fossi stata da sola non mi sarei ribellata, avrei ceduto, mi sarei arresa a subire fino alla fine. L’ho fatto per i ragazzi, solo per loro, dovevo difenderli anche se mai in vita avrei pensato di doverlo fare. Di dover proteggere i miei figli dal loro padre. Che li avrebbe ammazzati».
Ha cinquant’anni, Maria, è una donna che sta ancora scalando una montagna a mani e piedi nudi per restituire un’esistenza serena a se stessa e ai propri ragazzi, minorenni. L’ex marito è stato condannato a due anni e otto mesi, la Corte d’appello ha appena confermato la pena, decurtandola di un mese e diminuendo il risarcimento. «Lui è fuori, spero che il divieto di avvicinamento a dove abitiamo rimanga in vigore, non posso pensare di trovarmelo davanti» continua la donna. L’inferno è finito ma i figli hanno ancora addosso l’incubo delle botte, del massacro familiare, fisico e psicologico, di cui sono stati vittime e testimoni. Ché la madre, per difenderli, faceva scudo con il proprio corpo ai colpi diretti ai ragazzini. Si stanno riprendendo, hanno riallacciato i fili di una vita normale ma la fatica è grande dopo anni passati a dormire con il cellulare sotto il cuscino per chiamare il 113 e un coltellino svizzero a portata di mano; a guardarsi sanguinanti per le botte, a vedere la madre massacrata, a scappare per non essere raggiunti da oggetti lanciati come sassi, con il corpo segnato dai lividi delle bastonate e anche con denti rotti. Dal papà.
«Ci pestava tutti i giorni e la mamma ci proteggeva, prendendosi i pugni per noi», hanno raccontato i ragazzini al processo. Hanno ritrovato un equilibrio, Maria e i suoi figli insieme, un equilibrio nel quale la fragilità ancora pulsa come una grande ferita un po’ da ricucire, un po’ da affrontare, un po’ da rimuovere.
Ma ancora non è finita, un altro “invisibile” nemico continua a scavare trincee di isolamento attorno alla donna: parrebbe che più di così una persona non sia in grado di affrontare in una vita sola. E invece. «Invece la solitudine, invece la gente ti evita, non hai più nessuno attorno. Invece c’è chi ti riga la macchina, chi ti suona per dirti che con la denuncia hai rovinato la tua famiglia. Chi viene a dirti che non ti vuole ad abitare vicino. Anche le donne e sembra incredibile», racconta Maria con l’amarezza che le straripa dal cuore. «I parenti di lui mi odiano e ho anche fatto tanta fatica con i miei, ci ho messo un po’ a riprendermeli, anche loro erano finiti in quella spirale. Poi con siamo andati assieme agli incontri al Centro antiviolenza e le cose sono cambiate, hanno capito che ho ragione. Che ho fatto bene a fare quello che ho fatto. Vorrei che le persone la smettessero di trattarmi come un cane rognoso. È ancora grande il tabù tra la gente: le donne devono soffrire e subire, punto».
Un appello e una denuncia insieme che arrivano addosso come un pugno, un altro pugno.
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova