Addio a Ongaro, grande sognatore di provincia

Gli inizi con Pratt nella sua Venezia, poi si era dedicato al giornalismo. L’amore per l’avventura lo aveva portato ai libri

Alberto Ongaro apparteneva alla razza di Emilio Salgari, di Hugo Pratt, di Paolo Conte: grandi sognatori di provincia, cosmopoliti nell’immaginario prima ancora che nella realtà. È morto ieri a Treviso, a 92 anni, non proprio con la penna in mano, come gli sarebbe piaciuto, ma quasi: perché i suoi romanzi li ha scritti fino novant’anni, prima che le parole - diceva lui - cominciassero a non scorrere più. Aveva cominciato giovanissimo, a vent’anni, nella sua Venezia, scrivendo le sceneggiature per i fumetti dell’amico Hugo Pratt, un sodalizio che durerà una decina d’anni, che li porterà insieme in Argentina per sette anni a contatto con un mondo che poi Ongaro farà rivivere nei suoi romanzi sudamericani. L’Argentina fece diventare Ongaro un autentico viaggiatore e quando tornò in Italia finì per fare il giornalista, prima all’Ansa e poi all’Europeo, accanto ad Oriana Fallaci: come lei inviato nei luoghi più aspri e lontani. L’avventura era nelle sue corde fin da giovane, quando aveva rischiato la vita diffondendo volantini antifascisti a Venezia nel 1943, eppure l’avventura reale per lui non valeva quanto quella di carta, quella amata sui romanzi di avventura, che come pochi, poi, è riuscito a far rivivere.

Il suo esordio letterario era stato nel 1965 con “Il complice”, poi nel 1970 era arrivato “Un romanzo d’avventura”, in cui usava come protagonista Hugo Pratt (che peraltro non gradì molto). Ma la svolta arriva nel 1980, quando ormai il richiamo di Venezia lo ha riportato a casa, al Lido, dove è vissuto poi per moltissimi anni. La svolta è “La taverna del Doge Loredan”: da giornalista Ongaro diventa a tutti gli effetti scrittore. E scrittore originalissimo, quasi inconsueto per la cultura italiana. Perché i suoi libri sono ricchi di storie: qualcuno ha scritto che con le storie raccontate in un suo libro, gli altri scrittori ne avrebbero fatti dieci. Perché i suoi libri sono pieni di “sliding doors”, di incroci e sovrapposizioni, di intrecci in cui reale e fantastico si sfiorano in continuazione. Come pochi altri Alberto Ongaro sapeva giocare con la narrativa pura, con la passione per le storie: amava Conrad e Stevenson, ma anche Dumas e prima ancora di Eco aveva capito che per farlo rivivere bisognava giocare con le trame, moltiplicarle e insieme metterle in dubbio, lasciando il lettore in una costante incertezza su quel che stava leggendo.

“La taverna del doge Loredan” era un curioso libro di avventura, affascinante e destabilizzante, perché chiamava in causa il lettore e creava un gioco di specchi: cosa che Ongaro ha fatto in quasi tutti i suoi libri, fino a “Il respiro della laguna”. Lo affascinava il tema del doppio, e chissà se in questo ha subito l’influenza di Franco Basaglia, amico e marito della sorella Franca. Certo è che anche come scrittore Ongaro ha avuto una doppia vita. Negli anni ’80 un notevole successo, con libri come “Il segreto di Caspar Jacobi”, e soprattutto con “La partita” che vinse il Campiello e divenne un film di successo. Poi una lenta emarginazione dalla scena letteraria, con libri sudamericani come “Interno argentino” o “Rumba”, che avevano sostenitori convinti, ma non sfondavano più sul mercato. Fino al 2000, quando con un altro romanzo storico d’avventura, “Il segreto di Segonzac”, ha cominciato a conoscere un nuovo successo. La Piemme ha riportato allora in libreria, uno alla volta, i suoi libri degli anni ’80, e una nuova generazione di critici e di lettori lo ha scoperto. Lui sorrideva di questo, anche lamentandosi che l’editore volesse alternare i libri nuovi alla ristampa di quelli vecchi, ma in realtà era molto contento di trovare nuovi lettori. Ma anche di rinnovare la fedeltà dei vecchi con libri come “Il ponte della solita ora”, “La versione spagnola”, “Athos”, definitivo omaggio a Dumas, che riproponevano in chiave nuova la sua narrativa fatta di storie e misteri, doppi fondi e tripli inganni.

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