Boni: «Il teatro ci regala l’immaginazione»

A Padova con “I duellanti” e presto in tv con la fiction girata a Bassano: «L’accento veneto l’ho studiato in osteria»
Di Nicolò Menniti-ippolito

PADOVA. Ci sono momenti, nella vita di un attore, che segnano una svolta. Per Alessio Boni la svolta coincide con “I duellanti”, il testo teatrale che sarà in scena da mercoledì a domenica al Verdi di Padova.

Questa è stata la sua prima regia, dopo quasi 30 anni di carriera. Perché questa scelta?

«Fare regie non è obbligatorio, si deve fare quando si avverte l’urgenza di mostrare la propria visione del mondo. Può succedere a venticinque anni oppure a cinquanta come è successo a me. Non esistono regole. Ma nei “Duellanti” c’è qualcosa ancora di più. Non è fare un testo di Molière o di Pirandello, già scritto e pronto. Insieme ai miei tre compagni di avventura - ci chiamiamo il quadrivio - abbiamo scritto la drammaturgia dal romanzo di Conrad, che non era mai stato portato a teatro. E non è facile, perché frasi che scritte sembrano magnifiche una volta recitate suonano dolciastre, bisogna trovare il modo per tradurre in parola teatrale quella scritta».

Lei è conosciuto per l cinema e la televisione, eppure il teatro è il suo vero amore.

«Quando avevo 22 anni sono andato a teatro per la prima volta. Ho visto “La gatta Cenerentola” di De Simone ed è stata una folgorazione. Ho capito poco, perché usavano il napoletano del Seicento, eppure l’energia, la passione mi hanno affascinato e ho deciso che il teatro sarebbe stato il mio mestiere. Ho fatto l’Accademia e per sette anni ho lavorato solo in teatro, poi è arrivata “La meglio gioventù” ed è cambiato tutto. Avrei voluto continuare col teatro ma mi hanno offerto ruoli irrinunciabili: Puccini, Caravaggio, il principe Andrej Bolkonskij. Alla fine però mi sono deciso a dire no a cinema e televisione per ricavare i sei mesi che servono a fare teatro».

Prima come attore, ma adesso con totale responsabilità. Perché proprio con “I duellanti”?

«Perché mettendo in scena i due Ussari riusciamo a dire alcune cose che ci premono. Per esempio la nostalgia per un passato in cui ci si guardava negli occhi, ci si stringeva la mano e questo bastava. Ovviamente il testo si può leggere a più livelli. È anche semplicemente una storia di cappa e spada, ma è soprattutto la storia di un conflitto che vive dentro l’uomo. Il vero minotauro, il nemico è quello che hai dentro. Poi mi interessava raccontare ricreando la realtà con l'immaginazione. Sul palco raccontiamo, per esempio, la ritirata di Russia e ognuno nella sua testa riesce a vederla, riattiviamo quella capacità di creare immagini che ormai stiamo perdendo e che il teatro sa restituire. Questo il pubblico lo coglie e affolla i teatri perché ne ha bisogno».

Tra due settimane sarà anche in televisione con un nuovo sceneggiato, “Di padre in figlia” che è stato ambientata nel Veneto. Come se l’è cavata con l'accento?

«È stata un’esperienza molto bella. A Bassano ci hanno accolto in maniera incredibile, tutti. Ci sono luoghi in cui sembra di dare fastidio, quando giri un film, a Bassano invece c'è stata una grande ospitalità. Io faccio la parte del padre padrone, del proprietario che non vuole accettare che la figlia entri in azienda e la prenda in mano. È stato facile, mi è bastato pensare a mio nonno, a mio bisnonno, perché quello che raccontiamo è il cambiamento del costume italiano nell’arco di trent’anni. E veramente per le donne è cambiato tutto. Il mio personaggio non è quello di un uomo cattivo, ma di un uomo che come tutti pensava a se stesso come l’unico che poteva decidere per tutti. Un po’ alla volta prende coscienza del ruolo delle donne, come tutti gli italiani, anche se c’è ancora da fare in questo campo. Quanto al mio veneto deciderete voi se è credibile. Io sono andato in giro per osterie a bere ombre per carpire le tonalità. Spero di esserci riuscito».

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