Dai film d’autore al Monnezza se n’è andato Tomas Milian

ROMA. Sul dizionario inglese “maverick” è “cane sciolto, anticonformista” ma nel linguaggio dei cowboy è il “puledro allo stato brado”. Mai definizione si sarebbe attagliata meglio a Tomas Milian, cubano di nascita, americano di passaporto, naturalizzato italiano per una scelta di vita e di cuore, spentosi nella sua casa di Miami a 84 anni. Chi gli era vicino racconta che avrebbe voluto morire a Roma. Nato a La Havana, scappa da Cuba a 24 anni per tentare la fortuna in quella che diverrà la sua prima patria adottiva, l’America, iscrivendosi all'accademia teatrale di Miami per poi trasferirsi a New York e debuttare a Broadway. Ma è nel varcare l’oceano come un vero emigrante (con appena 5 dollari in tasca) che Tomas Milian scopre il cinema e diventa davvero attore. Al festival di Spoleto del ’59 lo nota Mauro Bolognini che lo ingaggia nel cast di “La notte brava” e da lì strappa a Franco Cristaldi un contratto con la Vides che per sei anni lo vedrà lavorare con i migliori registi italiani, da Visconti a Lattuada, da Zurlini a Maselli, fino a Pasolini. Bello, aitante, bruno e dai tratti inconfondibili. È difficile non ricordarlo in opere del calibro di “I delfini” e “Gli indifferenti” di Citto Maselli o “Il bell’Antonio” di Bolognini. Alla fine di un burrascoso rapporto, lascia Cristaldi e cerca fortuna in Spagna per poi tornare in Italia da eroe improvvisato del western all’italiana: il clamoroso e inatteso successo di “Faccia a faccia” con Gian Maria Volonté (regia di Sergio Sollima, 1967) gli spalanca una nuova carriera. Titoli come “Se sei vivo, spara”, “La resa dei conti”, “Tepepa” sono ormai storia del cinema di genere e in questo affresco Tomas Milian diventa l’eroe rivoluzionario dei peones messicani. A metà degli anni ’70 rinasce ad una nuova vita artistica con un altro genere di narrazione popolare, poi ribattezzato “poliziottesco”. Qui incontra due maestri del B Movie come Umberto Lenzi e Lucio Fulci; qui diventa Nico Giraldi con il celebre berrettino per “Squadra antiscippo” (1976) e poi si mette la parrucca di Er Monnezza per “Il trucido e lo sbirro” di Lenzi (1976). Ormai è finalmente un protagonista, una maschera popolare, un’icona giovanile destinata e restare di moda fino alle porte degli anni 2000. Con Hollywood è rimasto sempre in contatto ed è qui che cerca nuova gloria col declinare dei generi del cinema italiano. Marco Muller che, da direttore del Festival di Roma, gli consegna nel 2014 il massimo premio alla carriera (Marco Aurelio) come attore e feticcio della sua città adottiva.
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