Duse e D’Annunzio agli occhi di Gabriele fu Eleonora la carnefice

di Nicolò Menniti-Ippolito
La verità è che forse non è stata una grande storia d’amore. Però tutti e due avrebbero voluto che lo fosse e soprattutto tutti e due hanno lavorato perché così venisse tramandata. I dieci anni d’amore tra Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio sono stati molto chiacchierati allora, tra il 1894 e il 1904, e lo sono stati anche dopo la morte della Duse, quando la sua tomba è diventata meta di pellegrinaggio per chi viveva amori infelici: lei grande artista vittima di un uomo più giovane, più arrogante, donnaiolo fino all’estremo, ambizioso aldilà di ogni limite. E se tanto si è chiacchierato, viene da pensare che tutto sia stato detto, ma non così la pensa Annamaria Andreoli, una delle maggiori studiose dell’opera di D’Annunzio, che per dieci anni ha anche guidato, come presidente, la Fondazione del Vittoriale. Una dannunziana, è il caso di dirlo subito, e non a caso “Più che l’amore” (Marsilio, p.382, 19,50 euro) è un libro sì sulla storia d’amore tra la Duse e D’Annunzio, ma visto dalla parte di lui, anzi col dichiarato intento di smontare la leggenda nera, che vuole lei amante tenera e bistrattata e lui profittatore fedifrago e ingrato.
Come è invece realmente andata? Nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai, ma Annamaria Andreoli la racconta così: è lui, D’Annunzio, a essere vittima e lei carnefice. In realtà non esistono prove, ma la studiosa ritiene che gli indizi non manchino. Il primo è la scomparsa di molte lettere di D’Annunzio, scritte alla Duse. Perché lei le ha bruciate? Ma è soprattutto sulle vicende legate alla pubblicazione di “Il fuoco” che viene operato il rovesciamento.
Il fatto è noto. D’Annunzio e la Duse si erano conosciuti a Venezia nell’autunno del 1894. Lei era reduce da uno dei tanti tour mondiali ed era con Sarah Bernhardt la più celebre attrice al mondo, la Divina. Abitava a Palazzo Barbaro, il suo buen retiro quando non lavorava. Lui era un giovane scrittore di successo e frequentava Palazzo Dario. Lei aveva letto “Il Piacere” e “L’innocente”, lui sognava il teatro e se a recitare le sue opere fosse stata Eleonora Duse avrebbe avuto le porte spalancate. Lei era alle soglie dei quarant’anni. Lui ne aveva sette di meno. Nacque l’amore, o qualunque cosa sia stata, e nel 1901, quando ancora erano insieme, lui pubblicò un romanzo veneziano, “Il fuoco” appunto, in cui veniva raccontata, forse senza grandi invenzioni, la loro storia, con lei nella parte della donna al tramonto, dell’attrice invecchiata e tradita, e lui in quella del conquistatore senza freni, preso dall’arte e dalla sensualità. Lei ne usciva a pezzi, lui non molto meglio. E del resto quale prova migliore delle sue colpe di amante inaffidabile, se non questo libro che umiliava la grande attrice, ne mostrava il volto sfatto e l’incapacità di affrontare la vita. Solo che secondo Annamaria Andreoli il romanzo è un rovesciamento, è una finzione. È il povero D’Annunzio ad essersi accorto che lei non lo ha mai amato, che in realtà lei è preda di un narcisismo senza limiti, che pone sempre al primo posto il proprio ruolo di grande attrice. È lei che non vuole recitare i testi che lui scrive, perché sminuirebbero le sue interpretazioni. E a riprova - dice la studiosa - c’è anche un altro libro, quello scritto da Martino Cafiero, giornalista napoletano che aveva sedotto e abbandonato la Duse giovane con un figlio, poi morto. Ma anche questa storia può essere capovolta. Perché lei non era una santa - racconta il libro di Cafiero - perché lei arriva a usare l’immagine di se stessa con il figlio morto per pubblicizzare i suoi spettacoli. E poi c’è la storia con Arrigo Boito, con la Duse apparentemente sottomessa all’intellettuale, ma in realtà tesa a costruirsi come grande attrice. E del resto perché, dopo la pubblicazione di “Il fuoco” - dice Annamaria Andreoli - la Duse avrebbe scritto lettere tenerissime a D’Annunzio, invece di sbranarlo, se non fosse stata consapevole delle proprie colpe. Perché continuò a chiamarlo figlietto, con un vezzeggiativo inquietante, se veramente fosse stata vittima. Lettura possibile, ma certo non univoca.
Forse quello che veramente il libro mette in luce è che Duse e D’Annunzio amavano troppo se stessi, il loro successo, per amare fino in fondo qualcos’altro. Lei chiede lustro al suo rapporto con l’intellettuale alla moda. Lui chiede sponsorizzazione alla grande attrice capace di spalancargli le porte dei teatri di tutto il mondo. Lei recita la parte della donna sottomessa all’amore. Lui recita la parte dell’uomo spietato che disdegna il decoro. Certo è che per tutti e due furono dieci anni di grande intensità, di grande popolarità, probabilmente anche di sofferenza, ma se sia stato veramente mal d’amore, questo rimarrà impossibile dirlo.
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