Ermanno Olmi, il maestro che raccontava gli ultimi

La vita, i film, il pensiero. Il grande regista si è spento ad Asiago a 86 anni
Leono d'Oro alla carriera della 65. edizione della Mostra del Cinema di Venezia, al regista Ermanno Olmi, ritratto sul palco della sala grande del Palazzo del Cinema nel 2008 ANSA/CLAUDIO ONORATI
Leono d'Oro alla carriera della 65. edizione della Mostra del Cinema di Venezia, al regista Ermanno Olmi, ritratto sul palco della sala grande del Palazzo del Cinema nel 2008 ANSA/CLAUDIO ONORATI

Ermanno Olmi se n’è andato a dieci anni di distanza e alla stessa età (86 anni) del suo amico e dirimpettaio Mario Rigoni Stern, con cui nei primi anni ’60 aveva diviso un lotto di terra per costruire le rispettive case, al limitare dei boschi a nord di Asiago.

Il regista era approdato sull’Altopiano a fine anni ’50 per girare un film dal capolavoro di Rigoni “Il sergente nella neve”, che poi non fu realizzato. A quell’epoca era un giovane ma già apprezzato documentarista: nato a Bergamo il 24 luglio 1931 e cresciuto a Treviglio, dopo il liceo era stato assunto alla Edison, dove aveva cominciato a raccontare con la macchina da presa il lavoro umano e i vari aspetti della produzione industriale nell’azienda. In quello stesso 1959 aveva girato il suo primo lungometraggio – “Il tempo si è fermato” – in cui si definivano, dentro la storia di un giovane guardiano di una diga in montagna, i temi della sua produzione successiva: l’attenzione alle persone semplici, il rapporto con la natura, la solitudine.

Due anni dopo con “Il posto”, racconto sensibile e disincantato dell’approdo al lavoro di un giovane della provincia milanese negli anni del boom, Olmi vince il premio della critica alla Mostra di Venezia, raggiunge il successo e trova nella protagonista, Loredana Detto, la compagna della vita; dopo la nascita dei tre figli (Elisabetta, Fabio e Andrea, i primi due attivi nel cinema) e dopo alcuni anni di “pendolarismo” tra Milano e Asiago, la famiglia si stabilisce definitivamente sull’Altopiano nel 1976; quassù Olmi ritrova ogni tanto anche il vecchio amico Adriano Celentano, a cui aveva fatto interpretare un brano rock nel suo primo film, e che dieci anni fa gli consegnò a Venezia il Leone d’oro alla carriera.

Nel frattempo – dopo “I fidanzati” (1963), “E venne un uomo” (1965, su Papa Giovanni), “I recuperanti” (1969) e “La circostanza” (1974”) – il regista nel 1978 firma il suo capolavoro, “L’albero degli zoccoli” (Palma d’oro a Cannes), in cui fa rivivere tra realismo e poesia il mondo contadino delle sue origini, a cui rimase sempre legato. La religiosità di cui è permeata nel film la vita delle famiglie rurali di fine ’800 nel Bergamasco (fra le comparse c’era anche Umberto Bossi) fa sì che Olmi venga etichettato come “regista cattolico”, anche se lui ha sempre preferito per sé la definizione di “aspirante cristiano”, a sottolineare la sua inquietudine religiosa. Quando nel 1984 fu colpito da una malattia che gli distrusse il 65% delle fibre nervose, riducendolo a una totale immobilità, a salvarlo, raccontò in seguito, non fu la Fede, ma la frase opposta da sua moglie alla sua pressante richiesta di essere lasciato morire: «Ma se tu muori, io cosa faccio?».

La risalita dal baratro della malattia fu lunga e dolorosa e non priva di strascichi, che non gli impedirono però di ritornare prima al teatro e poi dietro la macchina da presa, con opere di largo respiro come “Lunga vita alla signora” (Leone d’argento a Venezia nel 1987), “La leggenda del santo bevitore” (Leone d’oro l’anno successivo), “Il segreto del bosco vecchio” (1993); seguono nel 1994 la fiction “Genesi” per la Rai ( «La storia della Creazione un libro che tengo sempre con me» raccontava Olmi «assieme ai Vangeli e a Tolstoj»), quindi nel 2001 “Il mestiere delle armi”, altro successo internazionale. Due anni dopo arriva un altro suo film cult, “Cantando dietro i paraventi”, ambientato in una Cina di fiaba, mentre è del 2007 il controverso “Centochiodi”, celebre per la scena in cui il giovane intellettuale protagonista crocifigge cento preziosi volumi: «Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico» replicava Olmi alle critiche a quello che doveva essere il suo ultimo film. «Se non ti fanno cambiare vita, a che servono i libri?».

Da allora però il regista non solo scriverà due libri (“Il sentimento della realtà”, con Daniela Padoan, e l’autobiografia “L’apocalisse è un lieto fine”), ma firmerà anche quattro documentari (fra i quali “Terra Madre”, nel 2009, atto d’amore per la natura aggredita) e altri due lungometraggi, “Il villaggio di cartone” e “Torneranno i prati”, girato nel 2014 a pochi metri dalla sua casa, sui luoghi della Grande Guerra, quando già l’aveva colpito la malattia che ieri, alle due di notte all’ospedale di Asiago dove era stato ricoverato venerdì sera per il precipitare delle sue condizioni aggravatesi già da mesi, l’ha portato alla morte.

L’anno prima l’Università di Padova gli aveva conferito una laurea honoris causa in Scienze umane e Pedagogia per «la sua azione di valorizzazione delle radici culturali (...) della grande storia e dell’esperienza quotidiana e delle piccole cose».

Le cure intanto avevano regalato al regista un’ultima, breve stagione creativa, che gli ha consentito di realizzare il docu-film sull’amico cardinale Carlo Maria Martini, “Vedete, sono uno di voi”, a cui ha lavorato fino a pochi mesi fa. Ma quando, il 27 gennaio scorso, Olmi non si è presentato al Premio Nonino, dove era da sempre in giuria, si è capito che qualcosa stavolta si era spezzato irreparabilmente.

Quando ha chiuso gli occhi, Olmi aveva accanto a sé la moglie e i figli. I funerali si svolgeranno in forma strettamente privata.

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