Fabrizio Moro e i figli di nessuno «Noi, con coraggio e con dignità»

INTERVISTA
“Figli di nessuno”: è così che dice di sentirsi Fabrizio Moro, lui insieme ai “ragazzi del quartiere”: San Basilio, a Roma. Ed è così che ha deciso di intitolare il suo nuovo album, uscito venerdì e le cui copie potranno essere autografate il 9 maggio alle 18 nell’instore al centro commerciale Piazzagrande di Piove di Sacco.
“Figli di nessuno” è un titolo autobiografico?
«Sì, anch’io mi sento un figlio di nessuno. Così come tutti i ragazzi del mio quartiere che, nati e cresciuti in un contesto difficile, hanno continuato a lottare con coraggio e dignità».
Cosa conserva del ragazzo di allora?
«Le canzoni. Tante le ho scritte proprio perché appartengo a quel mondo: una realtà che mi ha insegnato ad andare avanti nonostante le difficoltà. Ma una realtà che mi ha anche insegnato a urlare, mentre a volte a essere più rumoroso ed efficace è il silenzio. È il “limite che rende umani” di cui canto in “Ho bisogno di credere”. Ora l’ho imparato».
C’è stato un impulso per questo scatto?
«L’amore: per una donna, per un amico, per un figlio. L’amore ha un potere salvifico e quello per i miei figli mi ha salvato spesso. Dall’ipocondria, ad esempio: ne sono in parte guarito dopo la nascita dei miei bambini».
Nel disco c’è un pezzo, “Filo d’erba”, che parla proprio di suo figlio Libero.
«È incredibile quanto mi somigli: nell’aspetto ma, soprattutto, nel carattere. Ho scritto questa canzone vedendo la sofferenza nei suoi occhi quando mi sono separato da sua madre. È stato come vedere il “Fabrizio piccolo” piangere per il “Fabrizio grande”. Mi ha commosso molto».
Che effetto ha fatto a suo figlio ascoltarla?
«Ancora non gliel’ho fatta ascoltare».
Lei, a 44 anni, come si sente? “Eterno ragazzo” o uomo?
«Un eterno ragazzo, come Gianni Morandi. Sono curioso, sempre con una gran voglia di scoprire cose nuove e suonare per sempre più persone. Sono a metà del viaggio».
E come sarà l’altra metà?
«Bellissima, perché la vita è meravigliosa. E poi io sono sempre stato felice. Lo sono ora, perché ho reso la mia passione un mestiere. Ma lo ero anche prima, quando facevo il facchino o mi svegliavo alle 5 per andare a pulire i bagni».
La “prima metà” l’ha vista iniziare suonando le canzoni di Tozzi e Ligabue.
«Suonavo la chitarra all’oratorio. Facevo anche le cover dei Ramones, perché il mio animo è punk. E poi, sì: Umberto Tozzi e Ligabue. Da “Ti amo” a “Marlon Brando è sempre lui”. Semplici e con pochi accordi».
Dall’oratorio all’Olimpico. Che ruolo ha il palco per lei?
«Il palco è tutto. È la salvezza, è un riparo, è la fine della guerra: è la mia vita. Il palco mi protegge ed è l’unico luogo in cui mi sento davvero me stesso».
E la scrittura, invece?
«È un momento meraviglioso, in cui entro in confidenza con il mio “io” . È una sorta di autoanalisi. Ma non ci penso, perché per me è come fosse un momento di transizione».
Oltre alla musica cosa c’è?
«Il cinema. Quando non sono con i miei figli o non sono impegnato con il lavoro, passo il mio tempo a guardare film. Non passo le serate nei locali».
Preferisce il palco. Ci saranno degli altri concerti, oltre ai quattro già annunciati?
«Sì e saranno in tutta Italia. D’altra parte, le canzoni di “Figli di nessuno” nascono proprio per essere suonate dal vivo, in versioni molto fedeli a quelle originali».
Sarà sul palco dell’Olimpico con Ultimo?
«Sono sicuro che mi inviterà due giorni prima del concerto. Quindi lo anticipo: Nicolò, mi invito io ». —
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