Generare Dio, il rito laico del teatro Cacciari affronta l’enigma Maria la donna che rende umano Cristo

Parole, musica e opere d’arte per l’insolito debutto della stagione del Verdi di Padova  La riflessione filosofica si fa spettacolo e dialoga sul palcoscenico con Bach e Mantegna  





Di che si tratta? Di una lettura drammatica? Di un’esperienza multimediale? Di una sacra rappresentazione? Di una lectio magistralis con accompagnamento musicale? Niente di tutto ciò, piuttosto un esperimento, il tentativo di restituire a teatro, e coi mezzi del teatro, le sollecitazioni che vengono da un libro, ma stanno strette in un libro. “Generare Dio”, l’evento –chiamiamolo così – che ha aperto ieri sera la stagione del Verdi di Padova è un unicum, che non si sa se diventerà ripetibile.



All’origine c’è il libro di Massimo Cacciari che ha lo stesso titolo. Una riflessione breve, appassionata e appassionante, sulla figura meno trattata teologicamente del Cristianesimo: Maria, colei che genera Cristo. Ed è la passione il motore del tutto, la passione che mette Cacciari nelle sue riflessioni, siano scritte oppure espresse in pubblico.



Una passione che è teatrale, perché mostra il pensiero nel suo farsi, perché fa percepire la lotta che chi sta pensando conduce con i limiti del suo pensare. Ma questa passione richiede libertà, un andare a braccio che sembra contrastare con la dimensione necessariamente rigida della rappresentazione teatrale. Questa è la sfida di Giuseppe Emiliani, come regista, e di Federico Cautero che cura la scenografia virtuale, fatta delle opere d’arte che Cacciari usa per costruire l’icona di Maria: ingabbiare in una struttura un testo aperto, senza creare costrizioni ma evitando che tutto sfugga al controllo. Perché oltre al discorso di Cacciari e alle immagini, ci sono altri due elementi portanti.



Uno è la musica, suonata dal vivo dalla Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius. L’altro è la voce di Nicoletta Maragno che legge le poesie che Cacciari utilizza per raccontare la sua Madre di Dio, da Auden a Rilke, da Luzi a Clemente Rebora. Rimandi poetici che sono nel libro, al contrario di quelli musicali che sono nuovi ma provano a dialogare con il testo. Soprattutto il Bach iniziale, che sembra più lontano tematicamente rispetto ai Lieder di Hindemith (tratti da Rilke) e alla conclusiva Sonata super Sancta Maria di Monteverdi, ma dal punto di vista formale -nella versione per orchestra di Anton Webern- è il più vicino al modo di porsi di Cacciari di fronte all’enigma di Maria.



Un enigma che Cacciari affronta quasi da predicatore, sia pur laico. Non solo per restituire centralità a Maria, quella che solo i pittori (da Bellini a Mantegna, da Simone Martini a Rogier Van Weyden) hanno saputo cogliere. Ma per restituire centralità all’umanità di Cristo, a quella unione tra cielo e terra, mistero della incarnazione. Che non è solo fatto divino, proprio perché c’è Maria, colei che dice sì alla richiesta di Dio e lo dice –sottolinea Cacciari- col dubbio, perché non può comprendere. Vuole la volontà di Dio, Maria, ed è questo suo volere umano, colmo di angoscia, di ansia – spiega Cacciari – che rende autentica un’incarnazione che, venisse solo da Dio, sarebbe finzione.



Maria dice di sì alla richiesta di generare Dio, alla dimostrazione tangibile nella carne, che non esiste impossibile presso Dio. Nel suo racconto, Cacciari segue l’andamento del libro, anche se nel finale si spinge un po’ più in là, affrontando con maggior forza il momento opposto alla generazione che è la passione. Racconta come l’ombra di Maria ospiti la luce di Cristo, che così facendo attua quella kenosis, quello svuotamento del divino da sè, elemento imprescindibile per l’altro mistero: la croce. Aldilà della piccola espansione tematica, cosa offre realmente in più questa versione teatrale? La sensazione è che si abbia un altro tipo di espansione. Da un lato perché qui le immagini hanno una presenza forte quasi come le parole. Dall’altro perché la musica non si giustappone, ma interpreta l’angoscia che l’incarnazione comporta con il suo presagio di sofferenza e morte. Dall’altro rafforza l’aspetto agostiniano del pensiero di Cacciari. Non solo tematicamente, ma proprio per l’incedere della riflessione, che appare come in Sant’Agostino un continuo interrogare, un incedere che scopre e rivela, ma sempre torna indietro per chiarire che il dubbio è il senso di ogni credere. Cacciari non interroga Dio, interroga il logos e l’intelligenza - in questo caso - degli spettatori del Verdi, chiamati a sentire la potenza razionale di “Generare Dio”. —



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