I peccati e le penitenze in quattro volumi tutti i codici medievali

Il presbitero patavino Di Donna riunisce i “canones” Ventuno anni di studio per comparare 41 differenti tariffari
Di Cristiano Cadoni

di Cristiano Cadoni

Nella top ten dei peccati più gravi - e anche più frequenti - i primi posti erano stabilmente occupati da tre colpe davvero imperdonabili, almeno a quei tempi: l’aborto (considerato alla pari dell’omicidio), l’adulterio e l’apostasia, ossia il ripudio del proprio credo. Quei tempi erano i primi secoli dopo Cristo. Anni duri per i peccatori, perché la severità delle pene imposte dai confessori era pressoché incontrollabile. È andata così fino a metà del sesto secolo, quando la necessità di gestire le penitenze si è fatta più stringente. Nascono a quel tempo i primi “tariffari” per i confessori, autentici vademecum per dosare la pena in relazione al peccato commesso, quantomeno all’inizio. Poi, in realtà, divenuti col tempo strumenti sempre più raffinati, con penitenze declinate in base all’ambiente in cui i peccati sono commessi, allo status del peccatore (il furto di un povero era considerato molto meno grave di uno commesso da un ricco), al suo stato clericale o laicale, alle condizioni economiche, al sesso, all’età e a tanti altri parametri utili. Quei Codici penitenziali - 38 appartenenti alla tradizione latina, tre a quella orientale, due a quella greca, tutti scritti da vescovi, monaci importanti e anche un Papa - sono stati per ventuno anni sulla scrivania di don Gianandrea Di Donna, presbitero padovano e docente di liturgia alla Facoltà Teologica del Triveneto. Che li ha studiati, confrontati e messi insieme, ricavando così quattro volumi - duemila pagine in latino - pubblicati dalle Edizioni Orientalia Christiana - Valore Italiano Editore, nella collana Kanonika. Un’opera straordinaria, molto bella anche per la “confezione”, e che oggi (17.30, aula magna della Fttr) offrirà subito uno spunto di discussione sulla Penitenza in occasione dell’arrivo in città del cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.

I Canones poenitentiales di Di Donna, attraverso gli “Indices”- in lingua latina - consentono di entrare direttamente nel mondo di questa prassi penitenziale medioevale, rimasta in vigore fino al concilio di Trento. Scopo dell’opera, ha spiegato l’autore ieri nel corso della presentazione, è «far toccare con mano le le differenze e le analogie, le soluzioni pastorali totalmente contrastanti o pressoché simili, le coerenze o le contraddizioni di cui questi “canones” penitenziali sono testimoni. L’opera fornisce pertanto le basi necessarie per l’elaborazione di una teologia liturgico-canonica comparata della penitenza tariffata». Detto che le pene erano quelle introdotte da Basilio Magno, cioè la excomunicatio”(il divieto di accostarsi all’eucaristia) a cui si aggiungeva la penitenza pane e acqua (per i monaci l’astensione da birra e vino), che prevedeva l’astensione dai cibi fino al tramonto nei giorni penitenziali di martedì, mercoledì e venerdì, e che con il passare dei secoli la severità si è via via ridotta (per un adulterio si è passati da dieci anni fino a uno, in qualche caso), i Canoni offrono soddisfazione a numerose curiosità sui peccati commessi e sulle casistiche. Prevalgonoi peccati di tipo sessuale. Ma sono codificate anche situazioni davvero impensabili. Se un’ape uccide un uomo, è peccato mangiare il miele prodotto dal suo alveare? La risposta varia da codice a codice: in alcuni si sostiene che quel miele non si mangia; in altri che si può, ma solo se si uccidono le altre api prima che tornino all’alveare; in altri ancora che si può sempre e comunque. Così tanti altri casi curiosi: dal cane che sbrana un uomo al topo che finisce nella birra, per citare casi che coinvolgono altri animali. «Emerge, in tutta la sua evidenza, la differenza rispetto a oggi», ha sottolineato ieri don Riccardo Battocchio, professore di Teologia Sistematica alla Facoltà Teologica. «Allora il perdono arrivava alla fine di una penitenza e dopo una liturgia in cui era il vescovo a dare l’assoluzione. Oggi c’è subito». In comune c’è la segretezza del “reato” commesso. La penitenza poteva anche essere pubblica, ma nessuno mai doveva sapere quale fosse il peccato da espiare.

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