Il sangue e la memoria sull’Ortigara
Alle 5.15 del 10 giugno 1917 il primo colpo della battaglia che si trasformò in calvario

“E dopo diciannove giorni di lotta estremamente cruenta, tutto ritornò come prima. Soltanto i cimiteri ritornarono più grandi”. Quando Mario Rigoni Stern e Antonio Chiesa scrivono questa annotazione nel loro “Parole sulle pietre”, condensano in una sintetica ma potente immagine una tragedia di devastanti proporzioni: due terzi degli oltre 49 mila soldati di nazioni diverse che da un secolo riposano nei camposanti dell’altopiano di Asiago sono caduti in quelle tre settimane scarse in cui nel giugno del 1917 si combatte la battaglia dell’Ortigara, una delle più cruente dell’intero conflitto. Entrata a far parte dell’epopea della Grande Guerra: “Il calvario degli alpini”, è stata chiamata.
Si comincia a sparare alle cinque e un quarto della mattina di domenica 10; piove, e c’è una fitta nebbia che ostacola il tiro delle batterie italiane sulle postazioni austro-ungariche. Si fronteggiano la nostra Sesta Armata, comandata del generale Ettore Mambretti e forte di 114 battaglioni di fanteria, 22 di alpini e 18 di bersaglieri, oltre a 10 del genio, per un totale di 330 mila uomini e 1. 600 bocche da fuoco; e il Terzo Corpo d’Armata austro-ungarica del generale Joseph Krautwald von Annau con 100 mila uomini e 400 cannoni, peraltro protetti da potenti difese scavate nella roccia e pressoché invulnerabili. A mezzogiorno e mezzo gli italiani devono prendere atto che i risultati del tiro di artiglieria sono insufficienti; alle tre del pomeriggio, sotto una pioggia battente, gli alpini suddivisi in due colonne escono dalle trincee per lanciare l’assalto, attraversando quel vallone dell’Agnellizza che essi stessi poi ribattezzeranno “il vallone della morte”, disseminandolo di cadaveri. Il battaglione Bassano riesce a impadronirsi del passo dell’Agnella; ma l’Ortigara rimane in mano austriaca. A sera i morti sono già oltre 2. 500.
Alle 9 del mattino seguente il nostro esercito riprende il bombardamento di preparazione, e alle quattro del pomeriggio gli alpini tornano all’assalto riuscendo a conquistare posizioni, ma vengono costretti a ripiegare. E in serata si decide di sospendere ogni operazione per tre giorni, considerando le pessime condizioni atmosferiche. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno gli austro-ungarici scatenano una controffensiva per riprendersi il passo dell’Agnella, ma sono costretti a ritirarsi. Le giornate successive registrano il consolidamento delle posizioni; la battaglia torna a scatenarsi alle 6 di mattina del 19, quando tre colonne di alpini muovono all’assalto della vetta dell’Ortigara, riuscendo a conquistarla. I giorni seguenti si provvede alla fortificazione delle posizioni e all’avvicendamento dei reparti, in previsione della controffensiva nemica: che parte poco dopo le 2 di notte del 25 giugno, con un violento tiro di artiglieria, che include anche l’uso di proiettili a gas; neanche mezzora dopo le truppe austriache muovono all’assalto, costringendo gli italiani a indietreggiare, e riconquistando le posizioni perdute. Si combatte aspramente per l’intera giornata, ma poco prima della mezzanotte il Comando è costretto a disporre il ripiegamento, che viene completato all’alba.
Verso le 3 di notte del 29 giugno c’è un nuovo assalto austriaco che costringe le nostre truppe a ripiegare definitivamente sulle posizioni di partenza. Così termina la lunga e sanguinosa battaglia dell’Ortigara.
Di fatto, l’offensiva italiana è fallita: al nostro esercito è costata 28 mila tra morti, feriti e dispersi; la sola 52esima divisione alpina ha dovuto registrare la perdita di oltre12 mila unità. Le conseguenze non si fanno attendere: il comandante supremo Luigi Cadorna esonera il generale Mambretti dal comando della Sesta Armata, riconoscendo le oggettive difficoltà create dalle condizioni atmosferiche, ma aggiungendo che «la principale causa dell’insuccesso la si deve ricercare nel diminuito spirito combattivo di una parte delle truppe per effetto della propaganda sovversiva»; tesi quanto meno opinabile, che tornerà in qualche modo a riproporsi qualche mese dopo a seguito della disfatta di Caporetto. Sul malcapitato generale Mambretti incombe anche la diffusa voce di portare jella, come conferma il colonnello Angelo Gatti, addetto al Comando Supremo: «È una persona tutt’altro che antipatica, ma in tutto l’esercito quando si parla di lui si fanno gli scongiuri; tutte le azioni alle quali ha preso parte sono andate male». E lo stesso Cadorna annota: «Devo liquidarlo dal comando… ha perduto la fiducia delle proprie truppe anche per quella sua maledetta jettatura».
A ricordo della sanguinosa battaglia (il cui ricordo viene immortalato anche in una delle più celebri canzoni alpine, Ta-pum: “Venti giorni sull’Ortigara / senza il cambio per dismontà…”), nel 1920 sulla mitica quota 2105 della montagna è stata eretta una colonna mozza, con la semplice ma potente scritta: “Per non dimenticare”.
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