«Il segreto per vincere la paura della morte è vivere una vita ricca di affetti e memoria»

Il saggio dello psichiatra Luigi Pavan, la certezza della fine oggi è negata «da un’umanità sospesa nell’eterno presente»
15/12/2010 Roma, presentazione della mostra Bosch a palazzo Grimani, nella foto il quadro Visione dell'Aldilà , Ascesa all'Empireo di Jheronimus Bosch
15/12/2010 Roma, presentazione della mostra Bosch a palazzo Grimani, nella foto il quadro Visione dell'Aldilà , Ascesa all'Empireo di Jheronimus Bosch



Ineluttabile, certa come null’altro, dolorosa come il distacco dal grembo materno al momento della nascita, eppure negata, scomoda, spesso nascosta da un’umanità che «vive in un eterno presente senza contemplarla». Da questa riflessione parte l’indagine del professor Luigi Pavan su “sorella morte”. Lo psichiatra padovano ha dedicato un saggio colloquiale al tema. “Perché la paura di morire?” (Apogeo Editore, 156 pp, 15 euro) riflette sull’inevitabile destino e su come affrontare la fine.

Ne esce una sorta di inno alla vita: in quanto se il pensiero della morte si accompagna a sentimenti di angoscia e timore, l’unico modo per affrontare l’avvicinarsi della fine «è arrivarci attrezzati costruendo relazioni salde e positive, coltivando affetti, creando rapporti e valorizzando la memoria, i ricordi personali, familiari e sociali». Insomma vivendo bene, in armonia con il mondo e la sua umanità. Un libro agile: Pavan non ha la pretesa di dare risposte definitive, la sua domanda rimane aperta, ma regala quella tranquillità maturata negli anni, nella consapevolezza che la morte è un «evento naturale che conclude l’arco della vita di ognuno di noi».

L’esperienza

Professore emerito dell’Università di Padova, dove ha insegnato Psichiatria, parte dalla sua esperienza personale e professionale. «Mi ha molto toccato» confessa «la morte di un amico o meglio il suo affrontare con rabbia e profonda sofferenza il cammino verso la fine. Mi ha colpito il suo voler negare a tutti i costi l’ineluttabilità della malattia».

L’amico era nelle parole del professor Pavan «un uomo colto, curioso, intelligente.La sua rabbia mi ha fatto riflettere». E poi scrivere. Ed è nato questo saggio dal linguaggio piano che parla di morte leggendola nell’interpretazione dei grandi autori classici, degli artisti, dei pensatori di ogni tempo e luogo, anche contemporanei. Tra le tante citazioni fatte per dimostrare l’attenzione permanente al fine vita c’è anche la “Visione dell’Aldilà” di Bosh, esposta in una grande mostra a Palazzo Grimani di Venezia. Suggestioni di ogni tipo per cercare di dare un perché alla paura «che, lo dico per esperienza diretta, cresce con la vecchiaia, con l’assistere impotenti ad amici e colleghi che se ne vanno e con il sapere che si è sempre più vicini alla meta».

la società

«Viviamo in una società convinta di poter dominare tutto. Anche la morte. La scienza lavora per farci vivere sempre di più» osserva Pavan «quasi a convincerci di poter aspirare a una sorta di eternità. Fermiamoci e riflettiamo. La prima esperienza di morte è proprio il parto: il neonato vive il grande dolore del distacco, della sofferenza, della rottura di un equilibrio. La morte, forse, è un po’ tutto questo». Ricorda il suo primo contatto con la morte: l’aprile 1945 e quei «cadaveri di soldati tedeschi galleggiare e arenarsi sulle rive del Po». Allora fu disgusto, non pietà.

un testamento

«Sì, questo libro - ne ho scritti molti altri - è una sorta di testamento spirituale. L’ho detto ai miei figli. Voglio lasciare loro il frutto di un pensiero maturo affinché leggendolo ritrovino me e al tempo stesso se stessi e tutta l’umanità». Pacato e sereno, Pavan non vuole «guarire dalla morte». «Non si può eliminare la paura di ciò che non si conosce», rivela, «ma si può aspirare a una fine della vita consapevole contrastando indifferenza e individualismo, mantenendo l’interesse per la dignità dell’Uomo, coltivando speranza e curiosità, anche se non collegate al trascendente». E così, forse, la morte farà meno paura.



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