La fabbrica del vetro dell’oro e del colore dove nasce la bellezza
Restaurata nel cuore di Venezia l’antica Fornace Orsoni I suoi mosaici senza uguali brillano nel mondo dal 1888

Interpress/Gf.Tagliapietra. 12.10.2017.- Riccardo Bisanza pres. della fornace Orsoni la presenta alla stampa.
È l’unica - e l’ultima - fornace del centro storico dove si lavora ancora a fuoco vivo, cioè con le fiamme che guizzano nella pancia del forno, tra gli utensili di ferro, le seggiole basse, i cassettoni di legno, i capelli raccolti, il vapore e il grembiule.
L’unicità dell’edificio, la longevità dell’azienda e la gloria della sua storia fanno della Fornace Orsoni uno di quei luoghi che andrebbero protetti per legge; perché dopo di lei non ce ne saranno altre, almeno non tra le case di Venezia dove i forni sono vietati; perché produce tessere di mosaico che si misurano in millimetri, brillano di 3.500 colori e decorano gli edifici più belli del mondo, dalla Basilica di San Marco alla Sagrada Família; e perché è sempre lì, dal 1888, in fondo a una calle dove venivano ammassati i vitelli prima di essere sgozzati al macello - calle dei Vedei - in quello spicchio di Cannaregio dove i veneziani ancora si salutano dalle finestre.
Dopo il restauro architettonico di Duebarradue durato dieci mesi, la fornace ha inaugurato ieri sera la sua seconda vita grazie ai frutti duraturi dell’intesa tra Lucio Orsoni (rimasto come consulente artistico e presidente onorario) e la Trend Group di Pino Bisazza che nel 2003 acquistò la fornace e tutto il sapere tramandato da Angelo Orsoni, maestro vetraio che stupì l’Expo del 1889 - e Antonio Gaudì - portando a Parigi un pannello con il campionario dei suoi smalti.
«Questo scrigno d’arte è un luogo che rappresenta la grande tradizione dell’artigianato artistico della Serenissima» spiega il presidente Riccardo Bisazza, forte dei 100 mila chili di mosaici per un totale di 12 mila metri quadrati che ogni anno escono dalla fornace.
Per una dei quelle congiunture felici che salvano qua e là pezzi d’artigianato insieme a tutte le loro mani, né le guerre del secolo scorso né quelle del XXI secolo (la crisi e la concorrenza) hanno modificato la quieta laboriosità della fornace che oggi conta quindici dipendenti - gli uomini al forno e le donne al taglio -, un fatturato di 3 milioni di euro e commesse da tutto il mondo.
È rimasta come un tempo la Stanza degli ori e degli sbruffi, affacciata sul bel giardino, dove sulle lamine sottilissime di vetro (gli sbruffi, appunto) viene applicata con il vapore la foglia d’oro. Una giornata basta a produrre non più di tre metri quadrati di mosaico d’oro (dai 2 ai 4 mila euro il metro), di 19 tonalità diverse, vale a dire 300 chili, anche se parlare di chilogrammi quando si usano martelli piccoli come bisturi fa un po’
grossier.
Certo non è cambiata la Biblioteca dei colori - e guai a chi la tocca - dove nella penombra, sugli scaffali di legno terra-cielo, sono allineati come volumi dell’Adelphi migliaia di tavolette di vetro che provano come, a volte, l’immaginazione dell’uomo superi l’infinito della natura. In fila, tutte le gamme del celeste, le gradazioni del verde, le sfumature dei viola e i tre colori imperiali - il giallo, il rosso e l’arancione - che hanno più tonalità di tutti gli altri. E poi il reparto delle sessanta carnagioni, per la pelle nivea degli angeli e quella meno delicata degli emiri di Dubai e Abu Dhabi, ritratti a metà busto, occhiaie incluse.
È da queste tavolette preziose come talismani che sono stati tratti i colori dei mosaici della Pagoda del Grande Palazzo Reale in Thailandia, o della Basilica del Sacro Cuore a Parigi, del Santuario di Lourdes e della cattedrale di Saint Paul a Londra, ma anche dell’appartamento newyorkese di Jeff Koons (certo meno chiesastici) e dello yacht più grande del mondo nella cui piscina ha ricreato il movimento delle onde. L’ultima novità è il mosaico in microdiamanti, venduto a centimetri: cinque euro per un quadratino che, all’occorrenza, può star bene anche al collo.
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