La fama, la bellezza e il genio per la moda «Giuliana, mia madre»

Crescere all’ombra di un mito e poi fare pace con il passato Roberta Camerino dedica “Schegge di R” alla stilista veneziana
Di Manuela Pivato

di Manuela Pivato

No, non è stato facile; e non per il cognome ingombrante, come generalmente accade, bensì per il nome che, diventato un marchio di fabbrica, sicuramente le ha sottratto un po’ di fanciullezza, oltreché la sicurezza della propria unicità. C’è voluto del tempo, un’infinita nostalgia e una grande onestà intellettuale per riscrivere la storia di una madre vista dagli occhi della figlia, quando la madre si chiama Giuliana Coen Camerino e la figlia si chiama Roberta, come il film con Fred Astaire e Ginger Rogers e, soprattutto, come la borsa.

Otto anni dopo la scomparsa della stilista veneziana, riordinate le fotografie, ricomposti i ricordi, ascoltati gli amici, Roberta Camerino Zanga omaggia la madre che non può più farle velo con un libro nel quale racconta la gioia, ma anche la frustrazione, l’orgoglio, ma anche l’avvilimento, di una vita trascorsa nel chiaroscuro di una donna bellissima, geniale, adorata, che faceva risplendere tutto ciò che toccava, che seppe dare agli accessori la preziosità dei gioielli e al velluto la dignità della seta; una donna nata per il grande pubblico, per firmare autografi, ricevere mazzi di fiori e fare strage di cuori. Perfetta, se fosse stata una zia; ma era una madre.

Con “Schegge di R”, edito da Marcianum Press, scritto insieme alla penna affettuosa di Federica Repetto, con l’introduzione di Vittorio Sgarbi e i buoni consigli di Luciana Boccardi, si capisce che tutto è perdonato. Si capisce che la confessione è anche catartica e che le parole forti, le esclamazioni, i moti dell’animo e della braccia raccontano l’autrice per illuminare nuovamente e meglio la madre.

«Si sa, non è facile essere figli d’arte» scrive Roberta Camerino «sono felice della mia vita anche se ho sofferto ma non per essere la figlia di una donna così potente e famosa in tutto il mondo ma perché aveva deciso di chiamare la sua azienda con il mio nome Roberta aggiungendoci un “di”.

Tolto finalmente il sassolone, raggiunta la consapevolezza di essere l’unica figlia che ha dato il nome alla mamma - esattamente come Arrigo Cipriani è l’unico uomo ad aver preso il nome da un bar - Roberta Camerino rivive la sua infanzia, la giovinezza e la maturità all’ombra di un monumento che non poteva rimanere giorno «senza udire applausi, ascoltare complimenti, essere circondata da fotografi e intervistata da giornalisti».

Nelle 140 pagine del libro - che sarà presentato oggi alle 18.30 all’Ateneo Veneto alla presenza delle autrici, con l’intervento del presidente di Confindustria Matteo Zoppas e della giornalista Luciana Boccardi, moderatore il responsabile editoriale di Marcianum Press don Roberto Donadoni - Roberta Camerino racconta l’origine di borse che nascevano ciascuna con il proprio nome, la Bagonghi cara a Grace Kelly, la Bajadera a tre colori, la Minniver; le sfilate a New York e quella galleggiante sull’acqua con i ballerini della Fenice all’hotel Cipriani, le boutique nel mondo e quel suo modo felice di accostare i colori; quella creatività contagiosa che, oltre a Roberta, si è estesa anche alla terza generazione con la giovane Tessa.

«Come apparivano senza tempo le sue creazioni, appariva senza tempo anche lei » scrive Sgarbi. «Oggi esce il libro di sua figlia impedendole di uscire dall’unico spazio e dall’unico tempo che le appartengono: quello della vitalità e della vita».

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