La Giuditta di Klimt mito di eroismo ed eros attraverso i secoli

di Virginia Baradel
Quando venne esposta alla Biennale veneziana del 1910 nella sala personale di Gustav Klimt, Giuditta II (la prima Judith era del 1901 ed è a Vienna) suscitò un vespaio di critiche ma anche un tourbillon di emozioni. Il gusto Sezession non era ancora assimilato e Klimt andava in picchiata verso l’estremo sia per lo stile che per i contenuti. Sparava i colori in un mosaico pulsante di decorazioni; spirali e calligrafismi fluttuavano in partiture irregolari dove abbondavano il nero e l’oro; volto e nudità erano diafani e patiti eppur così sensuali da far arrossire anche il più libertino dei visitatori. A marcare l’avida voluttà, erano le labbra rosse e socchiuse, gli occhi bistrati, il seno turgido e le mani grifagne che reggevano per i capelli il trofeo della testa di Oloferne. In quel dipinto c’era il fatale abbraccio tra eros e thanatos: la Giuditta klimtiana era l’emblema, quant’altri mai, dell’eterno femminino che seduce e castra l’uomo vittima del suo fascino. Dopo oltre un secolo di sconfinata ammirazione, quella Giuditta fa ancora un grande effetto, tanto più se esposta al Candiani di Mestre, in uno spazio metropolitano destinato all’arte contemporanea. Non è sola e non è per caso. Ottima la compagnia e virtuoso il progetto. Voluto dal sindaco Brugnaro, che per un momento aveva anche pensato di vendere Giuditta per far cassa, il progetto “Corto circuito: dialogo tra i secoli” porta la firma di Gabriella Belli. Attingerà dal grande bacino delle opere conservate nelle collezioni civiche veneziane per organizzare mostre temporanee al centro culturale di terraferma. La prima s’intitola “Attorno a Klimt: Giuditta, eroismo e seduzione” che si è inaugurata ieri e durerà sino al 5 marzo (catalogo Lineadacqua), l’allestimento è di Pierluigi Pizzi che ha trasformato l’asettico bianco, fisiologico al contemporaneo, del Candiani in un total black minimale e raffinato tale da amplificare il fascino magnetico delle opere.
Le 80 opere esposte arrivano dai musei veneziani (Ca’ Pesaro, Ca’ Rezzonico, Fortuny, Correr, Mocenigo) dal Mart e da collezioni private. Il mito di Giuditta viene raccontato attraverso i secoli a partire dalla fortuna artistica che ebbe tra Cinque e Seicento per giungere a una stagione di autentica gloria con il simbolismo ottocentesco e le secessioni nordiche. In quei paraggi si colloca anche l’interpretazione che del mito diede Sigmund Freud, collegandolo al tabù della verginità. Un discorso affascinante e complesso che trascorre dal sacrificio dell’eroina biblica, che seduce e decapita il generale assiro durante l’assedio della sua città Betulia, alla progressiva mutazione in demone tentatore quale anche il cinema ha registrato con dovizia di versioni. Nel giro di qualche secolo Giuditta è passata dall’eroismo all’erotismo, diventando icona di un diabolico appeal. Un team di ricercatori dell’Università di Padova, coordinato da Gian Piero Brunetta, ha realizzato un montaggio di brani tratti da cinquanta film girati tra il 1910 e il 1923, nei quali conturbanti divine lanciavano i loro strali ammaliatori dal grande schermo. Dunque si parte dalla celebrazione delle virtù civiche e morali con corredo iconografico intestato alla fedeltà, alla fortitudine e alla grazia guerriera nei dipinti e nelle incisioni rinascimentali; si svolta poi nel crudo realismo introdotto da Caravaggio che Artemisia Gentileschi adottò, mettendoci di suo un supplemento di sollecitudine nell’espletare la missione, memore dell’aggressione sessuale che aveva subito da parte di Tassi, amico e collaboratore del padre. Dipinti e incisioni raccontano di questa svolta e del successivo incremento di teatralità, da Francesco Cairo a Jacopo Amigoni, sino a sfociare nell’esercito delle erinni vendicatrici che abitano il simbolismo, il regno delle “vergini funeste”, come ebbe a definirle in un brillante pamphlet del 1966 Giancarlo Marmori: Giuditte e Salomè, sirene e vampiresse, eve e sfingi. E dunque, dopo i languidi nudi fotografati e dipinti da Mariano Fortuny, ecco i deliri surreali di Alberto Martini, Felicien Rops e Fernand Khnopff. Si affaccia sul 900 il profondo tormento che il tema della bellezza accoppiato alla morte provocava in Munch. La Vanitas di Leo Putz è un breviario dell’inconscio: candide lenzuola e una pelle color dell’aurora, non riescono a fugare la nebbia bituminosa che sovrasta la fanciulla evocando fantasmi di libidine che ne insidiano la mente.
Le scarnificazioni di Schiele sono invece capolavori all’insegna della sottrazione: linea, solo linea e poco più per dire di un estremismo erotico che corre sul ciglio dell’abisso. Largo e legittimo spazio “attorno alla Giuditta di Klimt” è riservato a due protagonisti del simbolismo e della secessione come Luigi Bonazza e Vittorio Zecchin. Il primo si mostra sempre più come l’esteta della mitologia che distilla un figurativo specchiato e prezioso. Il secondo traduce Klimt in un lagunarismo bizantino che allestisce fiabesche scenografie di trionfi cortigiani. Mantelli e chiome, scudi e incensi si accordano in una profusione policroma di corpuscoli cerchiati e rilievi dorati che fa da coro all’inaccessibile bellezza delle sue principesse.
Un colpo di teatro finale fa sobbalzare il mito; volutamente sconcerta il pubblico non avvezzo all’arte contemporanea, come e più della Giuditta nel 1910: il materasso usato e finanche sudicio di Sarah Lucas con un secchio, due meloni, due arance e un cetriolo Au naturel, come recita il titolo dell’opera, spariglia con ironia il corteo d’arte e psicanalisi che ha accompagnato Giuditta nelle sale del Candiani, restituendo a fine corsa al centro culturale mestrino la vocazione originaria.
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