Leggero come una “Piuma” ma è il nostro nuovo cinema

di Michele Gottardi
“Piuma” è una commedia, e non è per questo che non ha diritto a essere in concorso a Venezia. Anzi, come in passato da Mario Monicelli - che con “La grande guerra” vinse anche un Leone d’oro nel 1959 - a Paolo Virzì (“Ovosodo”), ai molti film francesi, anche recenti, ci sta benissimo. Ma c’è un ulteriore motivo, o forse due, che ne consacrano la sua presenza: il film di Roan Johnson, con tutti i pregi e difetti che ha, è l’immagine di un’Italia immatura. E dunque la commediaè lo specchio fedele delle indecisioni storiche di un paese senza rivoluzioni e del suo cinema; se questo è il miglior esempio di circa 150 film visti in selezione, è giusto che sia in concorso: questo è il nostro cinema. “Liberation” ci va giù pesante: dice che questa Mostra copre con un eccesso di sangue e di morti un vuoto culturale. La critica (parte della critica) fischia il film; la Sala Grande risponde con standing ovation e dieci minuti di applausi.
Detto questo, nemmeno “Piuma” è mirabilis. Ma diverte per una buona ora, fino a quando nella sceneggiatura prevale una certa voglia di esagerare con situazioni limite e con macchiette.
Ferro e Cate sono due maturandi, uno cialtrone, l’altra svagata, entrambi immaturi, che ne combinano un’altra, definitiva: restano incinti. Ma le conseguenze sono ampie e investono le rispettive famiglie, quella più strutturata del ragazzo, che invece rischierà il divorzio, e quella già disastrata di suo, della ragazza. Attraverso i nove mesi della gestazione, la storia di “Piuma”, nome improbabile data alla nascitura, si dipana superando mille problemi e incapacità degli uni e degli altri. «Abbiamo scritto questo film con la mia compagna e un’altra coppia di amici per esorcizzare la nostra paura di quarantenni che cercano di diventare genitori», dice Roan Johnson, italo-inglese, studi al Centro Sperimentale, al terzo film.
Dopo un’attenta selezione con oltre 1200 provini, la scelta dei due ragazzi è andata su Blu Yoshimi e Luigi Fedele, lui alla terza esperienza veneziana dopo l’esordio del 2010 con “La pecora nera” di Ascanio Celestini e “Cavalli” di Michele Rho. Due adolescenti tutt’altro che svagati, nel commento del regista: «La sceneggiatura era scritta, ma abbiamo accettato molti consigli da loro soprattutto nel modo di parlare. Alla fine Ferro incarna e ribalta lo stereotipo di una generazione di imbecilli irrisolti. Forse noi eravamo anche peggio». Eppure non sono solo loro gli indecisi: come nell’Italia contemporanea, gli adulti sono ancora più fragili e si affidano a pochi che decidono per loro.
«Noi non volevamo fare un trattato sociologico, ma raccontare una storia di oggi».
Tra i cliché dei giovani e dei grandi, si intrecciano temi importanti come quella della maternità responsabile, dell’aborto e dell’adozione, nei quali i protagonisti si arrovellano per tutto il tempo. Temi che richiedono un commento maturo, affidato a Michela Cescon: «Il problema della natalità è reale in Italia, non servono spot, ma una politica precisa, aiuti ai giovani che sono soli: i ragazzi del film non vanno da nessuna parte senza i genitori. Occorre avere soldi, lavoro e casa per poter fare figli». Cescon è Carla, mamma di Ferro: «ho accettato perché volevo cambiare personaggio. Nel cinema italiano ci sono due, tre attrici che fanno tutto e a me la commedia non la fanno fare quasi mai. Non ci sono ruoli importanti per le donne nel cinema italiano, non è come all'estero».
Il film sarà ricordato a Venezia anche per le papere gialle che invadono il Lido e volano in un gioco collettivo sul red carpet; sono l’argomento della tesina di maturità di Cate, sono già un simbolo. Il film sarà nelle sale il 20 ottobre.
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