L’Italia in croce, attacco alla mostra di Pesce

Neanche il tempo di mettere piede a Padova per inaugurare la sua retrospettiva ( “Il tempo multidisciplinare”, da domani al 23 settembre a Palazzo della Ragione) che Gaetano Pesce, architetto, design e soprattutto artista, fa i conti con la politica di casa nostra e le sue polemiche.
“L’Italia in croce”, l’opera installata davanti a Palazzo Moroni per presentare la mostra, ha sollevato un vespaio: maestro, è un attacco alla politica odierna?
«Siamo alle prese con qualche ritardato. Certo che il collegamento esiste, perché quest’opera critica il non servizio della classe politica italiana dalla fine della guerra a oggi. Ogni politico è a servizio del Paese, non è il Paese a servizio dei politici. L’ho spiegato proprio al sindaco Giordani che mi ha stretto la mano dandomi ragione. Pur essendo un’opera del 1978 è ancora validissima oggi: un governo dovrebbe essere formato dopo un mese e mezzo dalle elezioni, invece non si trova l’accordo ed ecco che l’Italia è in croce. Perché questi signori non sono in grado di mettersi d’accordo? Perché ognuno vuole qualcosa contraria all’altro e a pagarne le spese è l’Italia. Giorni fa il New York Times ha scritto un articolo vergognoso su quello che accade in Italia: gli elettori sono stati chiari e questi partiti non riescono ad accordarsi. Che mi telefoni questo senatore Ostellari e gli spiego che la sua ira è mal riposta: dovrebbe concepirla come un’opera che difende l’Italia. La mia creatività è impegnata a far capire che c’è un problema, l’Italia dovrebbe essere un paradiso e non lo è».
Lei ha un grande trasporto per l’Italia. E per Padova? «Certo che sì, non sono mica un estraneo. Ho frequentato il liceo Nievo, qui mi sono formato, e le mie vacanze le passo proprio in Veneto, scegliendo sempre un albergo di campagna, dove non c’è troppa gente. Porto i miei amici da tutto il mondo a vedere le chiese padovane, le piazze, i monumenti, la cappella degli Scrovegni. Ho fatto migliaia di visite e tutte seguono questo schema: Padova, Vicenza, Treviso e Verona. Venezia la conoscono già tutti. C’è molto da far vedere e sono contento che l’assessore Andrea Colasio abbia questo obiettivo: comunicare con il mondo. L’Italia è fatta di frammenti straordinariamente importanti ben oltre Firenze, Roma e Venezia. Apriamoci al mondo e alla sua energia cosmica. Vivo a New York proprio per questo: è la città di tutti, è la capitale delle minoranze».
Cosa aspettarsi dalla mostra?
«Prima di tutto voglio ringraziare il Comune che mi ha dato la possibilità di mostrare il mio lavoro nella Padova di Giotto, Donatello, dell’architettura gotica del Santo e dei virtuosismi urbanistici di Prato della Valle. Padova è troppo poco conosciuta. Ma io mi sono formato qui e farò di tutto per invitare amici e appassionati a conoscere l’attualità padovana. È conosciuta dalle persone colte, ma non dal grande pubblico».
Come si fa a scegliere “solo” 200 opere dopo 60 anni di successi?
«È facilissimo: per me è un’occasione per rivedere i lavori che ho un po’dimenticato. Io ho dato una traccia e i miei collaboratori l’hanno seguita e il risultato è ancora meglio del progetto iniziale. Investire sulla cultura costa, ma il ritorno paga: nel 1996 il museo parigino Pompidou spese 2 miliardi per una mia mostra, pari a un milione di euro oggi, perché l’idea francese, allora come oggi, è che il prestigio culturale, che sia alta moda, arte o qualsiasi forma, è attrazione. Infatti Parigi è la città più visitata al mondo. In Italia dovrebbe essere una regola e invece non funziona così».
Cosa non funziona?
«Noi siamo maestri della creatività, lo siamo nella vita, ma i politici, ancora una volta, non lo capiscono e, peggio, non capiscono l’importanza di investire nelle nostre qualità naturali. Ecco perché ho apprezzato davvero l’impegno del Comune: fa in modo che si parli di Padova nel mondo, generando curiosità che si traduce in occasioni, anche economiche».
Parla spesso di curiosità.
«La curiosità è il motore del progresso. Quando sento un papà che rimprovera il bimbo, “Non essere curioso”, m’indigno. Dovrebbe dirgli: “Devi essere curioso”. Perché è per curiosità che Galileo, a Padova, ha scoperto come funziona il sistema solare; è per curiosità che Giotto ha iniziato a Padova l’arte occidentale. Io sono curioso di tutto e commento, con ironia, la contemporaneità; ma non dimentico la gioia e la passione: quando tocco un materiale penso al braccio di una persona amata».
Curiosità, ironia. E colore.
«Verissimo. Il problema di tanti artisti è proprio il nero: si vestono di nero, realizzano nero, e sbagliano tutto perché è per definizione il colore senza energia, quello che rappresenta la morte. Per me il colore è un modo di comunicare le cose importanti, ma in modo leggero e piacevole, senza ostacoli e senza pregiudizi. Il mio messaggio viene letto subito, poi il cervello lo filtra. Non a caso i miei lavori sono amati dai bambini».
Spesso ha trasformato il presente nella sua musa. Come quando “impose” l’attualità delle donne maltrattate attraverso la poltrona ormai storica Up, nel 1969. Le sembra vada meglio oggi, per le donne?
«Proprio l’anno prossimo, al Louvre, ci sarà una mostra celebrativa per i 50 anni di questa poltrona. Ho posto l’accento politico su un fatto grave: la schiavitù della donna. Che persevera anche oggi e non solo nei paesi islamici perché il maschio non ha superato le sue paure e i suoi pregiudizi che continua a scaricare sulla donna».
Le sue opere sono pezzetti di storia, vocazioni all’emancipazione. Ma le immagina anche in un soggiorno comune?
«Io credo nella libertà e un uomo libero può immaginare tutto. Imposizioni e mode sono superate: quello che siamo è quello che conta di più perché quello che siamo è il nostro valore, fa di noi delle persone uniche. Il futuro corre verso la valorizzazione della persona e si allontana a grandi falcate dalle masse, dall’anonimato, dal politicamente corretto. Lo scriva in caratteri cubitali: sfuggire alle etichette, non essere coerenti, conformisti, amare la diversità, essere immuni dal politicamente corretto».
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