L’onda della modernità che attraversò l’Europa

A Palazzo Roverella di Rovigo la rivoluzione dell’arte a fine secolo
“A ogni tempo la sua arte e a ogni arte la sua libertà” era scritto nel palazzo della Secessione a Vienna. Essere liberi di creare l’arte del proprio tempo rappresentava la vera modernità. Fu questa combinazione di ideali a infiammare gli artisti di fine secolo che diedero vita alle Secessioni. La modernità era un astro nascente, si tentava proprio allora di darle forma. Non era intesa solo come rinnovamento volto al futuro: gli artisti insofferenti dell’arte ufficiale si volsero anche al recupero, senza complessi e con una screziatura elitaria, dei miti mediterranei, inserendo nei paesaggi nordici ninfe e satiri, centauri e Meduse. Lo Jugend, capitolo tedesco dell’Art Nouveau, ebbe anime diverse, ma tutte concordi nell’avversare il naturalismo e lo storicismo ottocentesco che avevano le roccaforti nell’Accademia e nelle mostre pubbliche governate da artisti “tromboni”, come li definì de Chirico e, con minor tatto, “idiota schiera di pennellatori che riducono la magica e severa arte pittorica in una specie di trucco decorativo”. Molti giovani artisti come lui, provenienti da ogni parte d’Europa, studiavano all’Accademia di Monaco e esponevano alle mostre del Glaspalast. Monaco era una città piccola ma, a differenza della Berlino guglielmina, pullulava di circoli, associazioni, club e riviste d’arte. E fu a Monaco che, in polemica con le istituzioni artistiche, ma anche con una malintesa forma di democrazia modernista che livellava gli artisti espositori, nacque nel 1892 la prima Secession d’oltralpe con il vezzo latino della “c” al posto della “z”, a sottolineare il taglio colto della rottura. Il capofila fu un artista in ascesa: Franz von Stuck.


Ed è a Monaco che inizia il percorso della mostra “Le Secessioni europee. Monaco Vienna Praga Roma”, inaugurata ieri a Palazzo Roverella a Rovigo, curata da Francesco Parisi (fino al 21 gennaio, catalogo Silvana Editoriale).


L’offensiva contro la vecchia guardia artistica accomunò tutte le Secessioni ma il “nuovo” si rifornì anche alle culture e agli stili locali. Uno dei maggiori pregi di questa mostra è proprio far capire, attraverso le ragioni del percorso e le opere esposte, l’intricata dialettica che animava i proclami, le proposte e gli artisti dei movimenti secessionisti. Il “nuovo” significava jugendstil e simbolismo, ma anche postimpressionismo di varia foggia ovvero tutte le tendenze in progress in Europa. Von Stuck nel 1889 aveva ricevuto la medaglia d’oro in una delle più importanti mostre ufficiali ed era considerato colui che introduceva nell’arte tedesca “il presagio di qualcosa di nuovo, di grande”. Nel 1893 prese la direzione dell’Accademia e la Secessione rifiutò mostre di Behrens e di Gauguin. A rigor di logica la visionarietà sulfurea di Stuck (in mostra ci saranno olio, bozzetto e acquaforte di Lucifero) è infatti quanto di più lontano possa esserci dal primitivismo di Gauguin, con buona pace dei propositi di apertura. Ribellistica ma contradditoria, la politica della Secessione monacense passò nel 1897 il testimone a Vienna che divenne subito la capitale indiscussa di quella stagione. In una Vienna dominata dal “trombonismo” del vecchio Hans Makart, i giovani artisti invocarono libertà e verità, pur senza abiurare la tradizione. Klimt, sopra tutti, è sommo interprete del nuovo ma non spezza il legame con lo stesso Makart che pure, tra toni aulici e tragici, usava allegorie e foglia d’oro. I viennesi si posero come il rinnovamento della tradizione e il tempio-palazzo della Secessione di Joseph Olbrich, venne inaugurato nel 1898 dall’imperatore in persona. Le varie stagioni di Klimt, che approdarono all’estetismo bizantino, finirono con l’invertire il sentiero della modernità e forgiare un simbolismo avverso all’idea di progresso e di evoluzione della storia. Comunque Vienna è il cuore pulsante delle Secessioni: Stuck vi espone con successo, scrittori come Hermann Bahr e Hugo von Hofmannsthal danno il loro formidabile contributo: l’abbinamento di Bahr con il critico Ludwig Hevesi porta dritto alla rivista-culto “Ver Sacrum”. Ma rientra nel gruppo anche un artista agli antipodi del preziosismo come Schiele, che scava nelle tenebre individuali e ne dà conto attraverso le contorsioni della linea. Jugend e simbolismo permearono tutta la cultura, dalla letteratura alle arti applicate: la grafica ebbe allora la sua stagione più alta e innovativa ed è assai ben rappresentata nella mostra di Rovigo.


A Vienna il codice della natura che informava l’Art Nouveau s’irrigidì e l’oro bizantino si abbinò piuttosto alla geometria e a sequenze ritmiche cui ben si prestano le piastrelle pavimentali. Su questo versante il simbolismo dello svizzero Hodler influì sulle prove di Kolo Moser e Josef Hoffmann.


Ancora diversa è la situazione praghese che non sancì una Secessione ma ne coltivò i fermenti in modo originale, soprattutto nel gruppo Sursum, in un contesto sempre in bilico tra nazionalismo e cosmopolitismo, tra slavofilia e attrazione per l’Europa. Del simbolismo, che annovera figure di spicco collegate a Vienna come Emil Orlik e Maximilian Pirner, venne accentuata in patria una disposizione esoterica che introdusse un forte carattere espressionista e grottesco.


Infine Roma, che volle la sua Secessione nel 1912 convocando soprattutto le novità francesi di cui aveva notizia tramite mostre e riviste fin dai primissimi anni del secolo. A Roma, dove c’era Giacomo Balla e il futurismo aveva buon seguito, la Secessione raccolse ottimi pittori, attenti alle avanguardie ma sul solco di un rinnovamento pacifico della pittura. La Secessione scaricò del tutto il Liberty e riuscì a portare a Roma le varie declinazioni del postimpressionismo offrendo materia di aggiornamento ai pittori italiani. Grande scalpore fecero i Pesci rossi di Matisse: la regina Margherita chiese lumi sugli «intendimenti tecnici dell’artista» e sul perché avesse tanto successo in Francia.


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