Lorenzo Mattotti fumetti, cinema e l’istinto del segno

di Nicolò Menniti-Ippolito
Ha firmato molte cover story per The New Yorker, manifesti per il Festival di Cannes, ha illustrato pagine di Le Monde e i romanzi di Stevenson: è uno dei disegnatori più ricercati al mondo. Come Igort, con cui ha avuto un lungo sodalizio artistico, Lorenzo Mattotti viene dalla scuola bolognese, ma ha scelto poi Parigi per lavorare, alternando la produzione tra pubblicità, fumetto, cinema, illustrazione. A Villa Manin ha appena chiuso la sua mostra “Sconfini”, che ospitava 400 disegni e replicava quella analoga di Parigi e che ha riscosso un enorme successo incantando il pubblico.
E Mattotti lavora con la matita, coi pastelli, col pennino, ha rinnovato il mondo dell’illustrazione fondendo tradizioni diverse e ispirazioni pittoriche che vanno - secondo i critici - da Munch a Schiele, da Bacon a De Chirico. Il suo ultimo libro si intitola “Ghirlanda” (Logos, pp 392, 35 euro).
Negli ultimi anni ha lavorato molto per il cinema, per la televisione, sembrava quasi aver messo da parte il fumetto.
«Non è stata una scelta consapevole e in realtà ho fatto alcuni fumetti brevi, anche uno su Bob Dylan, ma certo gli altri lavori mi hanno tolto parecchio tempo. Ci sono momenti diversi nella vita artistica. Per alcuni anni il fumetto era la cosa che mi interessava di più, poi mi è sembrato che le immagini singole mi permettessero di andare più in profondità. Ma quando mi è tornata la voglia di realizzare una storia l’ho sempre fatto. Come nel caso di “Ghirlanda”, che però inizialmente doveva essere una sorta di divertimento, e invece è diventato un lavoro impegnativo».
È partito dal disegno o dalla storia, in questo caso?
«In questo caso assolutamente dal disegno, dai taccuini in cui ho cominciato a disegnare con il pennino e un tratto lieve una serie di animali fantastici. E nato così il mondo di Ghirlanda, poi con Jerry Kramsky abbiamo costruito la storia. Il problema è che ogni volta ho continuato ad aggiungere nuovi animale e la parentesi leggera è diventata qualcosa d’altro».
Negli ultimi anni il graphic novel ha avuto un riconoscimento importante anche in Italia, è ormai considerato letteratura a tutti gli effetti, candidato ai premi maggiori come lo Strega. È cambiato qualcosa rispetto ai vecchi fumetti?
«Io continuo a chiamarli fumetti: si tratta solo di fumetti più lunghi, che hanno una struttura narrativa più ampia. “La ballata del mare salato” era già un graphic novel per me. Io stesso all’inizio degli anni Novanta ne ho fatto uno, che ha pubblicato la Feltrinelli, ma nessuno se ne è accorto. Oggi è diverso, soprattutto perché il fumetto ha guadagnato molto spazio. Col fumetto si racconta la cronaca, si scrivono biografie, si fa storia. Non saprei dire se è anche aumentata la qualità, ma le possibilità sì».
Lei ha collaborato con grandi personaggi, da Antonioni a Lou Reed. Cosa le hanno lasciato?
«Quando nel 2004 ho lavorato su “Eros” con Soderbergh e Antonioni è stato appassionante. Era il mio primo contatto col cinema e lavorare con registi di quel calibro è stato molto bello. Con Lou Reed abbiamo lavorato molto bene e credo che la potenza di “The Raven” lo dimostri. Lui ci teneva molto al libro e alla operazione nel suo insieme: è un uomo complesso ma di grande sensibilità. Lavorare su progetti degli altri è sempre bello, perché ti costringe a uscire dai tuoi orizzonti, a fare qualcosa di diverso».
Anche lavorare su commissione?
«Io lavoro spesso su commissione, ma credo di non aver mai rinunciato alla mia libertà artistica. Si può discutere, anche litigare, si può essere spinti in una direzione nuova, ma non si deve mai sacrificare la propria libertà. Quando ho fatto Hansel e Gretel la originalità derivava per esempio dal fatto che ero partito dal clima dei miei disegni nel quaderno che porto sempre con me, adattatati poi a quello che mi avevano chiesto».
E adesso sta realizzando anche il suo primo lungometraggio.
« Sto lavorando da tre anni a “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, tratto dal libro di Buzzati. Ce ne vorranno altri due per finirlo. È un lavoro enorme, in cui non puoi fare tutto da solo come nel fumetto, ma è per questo che la sfida è affascinante e non mi sono mai pentito di averla accettata nonostante la fatica».
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