Nelle Prigioni dove l’arte libera la memoria

Ci sono gesti capaci di riscatto, di costruire prospettive che rovesciano il senso, dando spazio a una narrazione nuova e aperta al futuro. È così che un luogo nato per la restrizione delle libertà diventa, attraverso l’arte, spazio per la massima espressione di libertà e per le infinite aspirazioni individuali alla conoscenza, al dialogo, al viaggio oltre i confini geografici, e oltre le barriere culturali, in un abbraccio planetario che vuole offrire nuove interpretazioni del mondo.
È stato inaugurato ieri a Treviso, nel giorno del cinquantesimo anniversario della morte di Martin Luther King, il nuovo spazio per le culture visive voluto da Luciano Benetton nelle ex Prigioni di Piazza Duomo a Treviso, che Edizione Holding ha acquisito quattro anni fa da Fondazione Cassamarca. Tre piani espositivi riservati all’arte contemporanea, ricavati nelle antiche carceri asburgiche cittadine edificate nel 1830, recuperate a nuova vita dal sapiente restauro dell’architetto Tobia Scarpa. Due anni di lavoro, e una cifra indefinita, sono stati sufficienti per far risplendere un luogo della memoria relegato a magazzino per un sessantennio e invisibile alla comunità. Uno «spazio brutale», lo ha definito Tobia Scarpa, nel quale i segni del passato affiorano, oggi con levità, senza nascondere il dolore di cui sono stati pregni. Le porte di legno pesante, con gli spioncini fermati da chiavistelli; i passaggi bassi, per oltrepassare i quali bisognava piegarsi. Le grate pesanti che bloccavano i corridoi, e oggi sono uguali ad allora che sembra di sentirne il cigolio; e quelle alle finestre. Le scritte impresse sui muri: l’infermeria, il cesso, le sezioni. E graffiti dei carcerati che incidevano i loro nomi nella pietra: il modo eterno dei prigionieri per tentare di sfuggire all’oblio e al nascondimento dal mondo. Un restauro di impressionante bellezza, che toglie la brutalità senza farla dimenticare, che non nasconde la storia ma la esalta anzi in una rinnovata pulizia delle forme.
Le “Gallerie delle Prigioni”, questo il nome ingentilito dell’ex spazio carcerario, nascono anche per dare una casa alla colossale collezione Imago Mundi: quelle 25mila opere d’arte di formato 10x12 centimetri, provenienti da più di 50 Paesi e comunità native del pianeta, che Benetton compone da anni con autentica passione. Testimonianza globale di geografie, storie collettive e individuali, tragedie, speranze, gioie, conflitti e alleanze dell’umano. Un affresco del mondo chiamato, ora, a dialogare con una serie di mostre temporanee con opere di artisti internazionali affermati ed emergenti – Luciano Benetton ha garantito massima apertura ai giovani e alle scuole – che guardano a quanto può offrire oggi l’espressività: dalla pittura alla scultura, fotografia, installazioni, performance, video. Tutt’altro che casuale il tema scelto per la mostra che battezza le Gallerie, tutta dedicata al deserto e alle regioni subsahariane e del Maghreb, terre oggi di migrazioni e fughe dalla guerra e dai fondamentalismi. “Sahara: ciò che è scritto rimarrà” (visitabile da oggi al 20 maggio) si sviluppa in un percorso di profonda suggestione che parte dall’esposizione, al piano terra, di 700 opere tratte dalle raccolte Imago Mundi di Algeria, Libia, Mali, Niger e del popolo dei Tuareg. Una sequenza favolosa di piccole tavole colorate, talvolta adornate da stoffe, che rappresentano volti, corpi, città, madri, soldati, bambini. Un racconto individuale e corale al tempo stesso. Al primo piano i dodici artisti selezionati dai giovani curatori Alexandra Etienne, Suzanna Petot e Nicolas Vamvoukis, abitano con le loro straordinarie installazioni artistiche il cuore della mostra. La potenza espressiva delle opere si misura con l’angustia delle ex celle di detenzione liberando lo spazio con gesti dirompenti.
Tobia Scarpa è riuscito a “tagliare” le piccole stanze mettendole in comunicazione attraverso un corridoio che corre parallelo a quello originario. Il risultato è un’apertura dello spazio che non ne nega la funzione, ma la libera. Teatro perfetto per i dodici capolavori che gli artisti hanno realizzato perché dialogassero con il luogo e con il tema della parola come segno di memoria e identità da salvaguardare. Si va dall’installazione sonora di Oussama Tabti alla piccola calligrafia su sale di Boubacar Sadek. Spicca lo straordinario “Libro d’oro” di Esmeralda Kosmatopoulos, greca, che ispirandosi ai graffiti lasciati dai carcerati ha realizzato un’installazione di neon su foglia oro. C’è il drappo tessuto da soli uomini di Rachid Koraïchi che celebra i 14 maestri Sufi. L’opera di Zoulikha Bouabdellah accoglie il visitatore come una carezza irta di spine: una parete tappezzata di fogli che riportano parole che si riferiscono all’amore vergate con smalto rosso, si specchia nell’installazione di sei lunghe mannaie, un corto circuito del senso. Il libico Takwa Barnosa propone una gigantografia di uomini velati e mette a disposizione del pubblico immagini di guerra. C’è la “zarda” caotica di morte e vita quotidiana di Hadia Gana, e il gioco simbolico con gli abiti tradizionali di Nadia Kaabi-Linke e Samia Ziadi. Essenziale e decisiva l’opera di Yazid Oulab che realizza due grandi mani dervisce con il filo spinato. I temi dell’identità e dello sradicamento spiccano nella tripla installazione video di Zenib Sedira, mentre l’austriaco Jürgen Kleft, propone una sorta di scavo archeologico con reperti scritti e stampati. Di rara magia gli “Alberi blu” di Aboubakar Fofana: una distesa di colonne ricoperte di stoffe indaco piantate nella sabbia, racconto per simboli che rimanda all’atavico peregrinare Tuareg. Chiude il percorso il documentario “Tutto è scritto” di Marco Pavan che racconta la geniale opera di salvataggio, nel 2012 in Mali, di migliaia di manoscritti conservati da secoli nelle biblioteche di Timbuctù, dalla furia jihadista. I tomi, ben nascosti, furono trasportati a dorso di mulo più a sud. Rocambolesca fuga dalla guerra e per la preservazione della memoria.
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