«Noi siamo fatti di terra e di cielo Come gli alberi»

La montagna veneta, tradizionalmente silenziosa, trova o consolida nuove voci, a partire da Antonio Bortoluzzi, appena premiato al Gambrinus Mazzotti per “Paesi alti”, e soprattutto da Matteo Melchiorre, 37enne storico feltrino affacciatosi già dal 2004 alle cronache letterarie con “Requiem per un albero – Resoconto dal Nord Est”. Appena conquistati i premi Rigoni Stern e Cortina per “La via di Schenér”, ora è di nuovo nelle librerie con “Storia di alberi e della loro terra” (Marsilio, 16 euro), che in realtà è una ricognizione nonostante tutto divertita – che sta fra il romanzo, il saggio e il memoir – nella crisi di senso del presente, tra devastazioni ambientali, crollo delle ideologie e catastrofe antropologica.
Non a caso nel nuovo libro, dopo aver riproposto il racconto della morte dell’Alberòn, che dominava la frazione di Tomo, dove vive, Melchiorre ci fa sapere che ad aver preso il suo posto ora è un sambuco, cioè un cespuglio, che diventa quasi un simbolo della frammentazione del nostro tempo e delle nostre comunità, a fronte delle solide certezze del passato. Presenterà questo libro, e parlerà anche dei precedenti, sabato 27 gennaio alle 18 alla libreria Pangea di via Ss Martino e Solferino a Padova, dialogando con Francesco Jori sul tema “Lo sguardo sbieco sul presente”.
Lo studioso, peraltro, continua a fare quello che ha sempre fatto a partire dal 2010: il precario all’università. «Saltello qua e là seguendo gli assegni di ricerca, da Ca’ Foscari allo Iuav, da Padova a Udine», dice, tacendo nei curricula ufficiali i titoli che lo stanno rendendo famoso, e che mal si attagliano però a una carriera accademica. La sua specializzazione è la storia economica e sociale del Medioevo, a cui si aggiunge l’interesse per la storia del paesaggio, in cui si innestano poi le ricerche in regime di “libero arbitrio” da cui sono nati i suoi libri.
Melchiorre, chi sono i suoi ispiratori?
«Innanzitutto Cechov coi suoi scritti di viaggi come “L’isola di Sachalin”, e Sebald, in particolare col romanzo “Vertigini”. Ma sono anche un attento lettore di Meneghello, e di alcuni autori contemporanei come Giulio Mozzi, Vitaliano Trevisan e Francesco Maino. E poi adoro il poeta di Revine Luciano Cecchinel, che registra nei suoi versi l’eclissi del paesaggio».
Lei sta sperimentando con successo un nuovo genere letterario, un po’ saggio e un po’ fiction. Come lo definirebbe?
“Qualche tempo fa il critico Alfonso Berardinelli si interrogava sulle nuove forme del romanzo: io penso che in realtà tanto “La via di Schenér” che “Storia di alberi” siano quanto di più simile a un romanzo ci sia in questo momento storico, in cui è venuta meno la narrazione classica della società, tipica di questo genere letterario, anche perché quella società non c’è più».
Nel libro si racconta di pioppi, ippocastani, tigli, bagolari, che periscono o resistono mentre il piccolo paese si spopola, nella società circostante le reti di relazioni si diradano e qualcosa di irreparabile sembra già essere accaduto intorno a noi.
«È esattamente questo il punto: mentre 15 anni fa denunciavo la trasformazione in corso, oggi essa è già avvenuta, ed è irreversibile; alla mia generazione non resta che prenderne atto e trovare il modo per conviverci. Io parlo di alberi, ma il tema è lo sradicamento: come molti miei coetanei anch’io sono cresciuto nel mito del distacco dalle radici, particolarmente forte nel mondo universitario che spinge a fare esperienze all’estero e vive il legame col proprio territorio come un ostacolo alla scienza: per 15 anni ho vissuto in altalena fra questo spirito e il desiderio di vivere nei luoghi che sentivo miei».
E come ha risolto il dilemma?
«Avviene nelle due pagine finali del libro quando, bruciando un mucchio di sterpaglie, mi rendo conto che l’Alberòn, ma anche ogni altro albero, è fatto di terra e di cielo, di radici piantate nel terreno e di rami e foglie protesi verso il cielo. Io in questi anni sono andato in cerca di volta in volta solo del radicamento o solo del movimento, mentre invece per raggiungere l’equilibrio bisogna proprio imparare a coniugare insieme appartenenza e libertà».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova