Pala Pesaro, il Tiziano risanato
Ai Frari il vessillo voluto dal vescovo di Paphos racconta la storia di una ferita dolorosa

di FRANCO MIRACCOMare di Ulisse ma poi, per secoli, mare di Venezia e del Turco, così almeno dalle Bocche di porto dei lidi veneti fino ai Dardanelli. Al vescovo Jacopo Pesaro, sulla sua galea armata per portar guerra al Turco nelle isole ionie dalle parti di Santa Maura, piaceva ascoltare il garrire del grande stendardo preso dal vento con forza quasi per far risaltare ancor meglio lo stemma di papa Alessandro Borgia, segnato, solo un po’ più in basso, anche da quello dei Pesaro.
Quello stendardo, cui Jacopo Pesaro resterà ossessivamente legato per tutta la vita, fu dipinto su suo volere addirittura due volte, episodio questo che resterà unico nei rapporti tra Tiziano e i suoi committenti.
La prima volta lo si vede al centro di una tela “molto privata”, voluta per casa propria dal vescovo affinché non andasse perso del tutto il ricordo della “sua” vittoria nella battaglia di Santa Maura. E questo è il quadro di Tiziano che si conserva nel museo di Anversa e di cui, per accortezza di un sapiente antiquario, è giunta a Venezia una copia storica estremamente fedele, che è subito diventata un’appassionante curiosità in casa di un collezionista veneziano.
La seconda volta lo stendardo ha tutto il rosso di una ferita ancora aperta e che una lunga memoria fa distendere in alto per colmare quanto più possibile un risentimento mai venuto meno e che per Tiziano è di color cinabro, anche se, ci ricorda Giulio Bono, che la Madonna di Casa Pesaro ha magnificamente restaurato, è «un cinabro riccamente lumeggiato con applicazioni di oro in foglia».
L’ultimo rosso, l’ultimo oro, così ha voluto Tiziano per quel vessillo, che era stato portato da Jacopo contro il Turco a Santa Maura, e che il giovane pittore cadorino ha capito dover essere l’ultimo rosso, l’ultimo oro su quella parte del suo capolavoro che ora si festeggia risanato nella Basilica dei Frari.
Dunque, cinabro e oro perché lì, Tiziano lo sa fin troppo bene, si apre il sogno di un risarcimento, al contempo umano e politico, che soltanto per le vie dell’arte Jacopo Pesaro ha potuto ottenere, ma che non ottenne mai dai Signori di Venezia.
Eppure anche a Santa Maura nel 1502 si era vinto, ma quella fu una vittoria-moneta di scambio tra le diplomazie veneziane e turche, nient’altro che un modesto successo per Palazzo Ducale, tanto è vero che la cosiddetta “isola dei Pesaro” dopo pochi mesi ritornò turca. Una retromarcia politica vissuta come un oltraggio irreparabile da due Pesaro, dato che in quella guerra, oltre a Jacopo, vi si trovò immerso soprattutto suo cugino, il potente Benedetto Pesaro, capitano generale dell’armata di San Marco, uomo ormai anziano anche se gagliardamente libertino e assai spietato nelle sue imprese contro il Turco. Solo che al vecchio Benedetto, Venezia riconobbe tutti i meriti delle vittorie di Cefalonia e di Santa Maura, a Jacopo invece, gentiluomo veneziano e vescovo, ritenuto molto più vicino a Roma che alla Repubblica e per di più legato per la vita all’odiatissimo papa Borgia, nulla fu riconosciuto. Di qui l’inizio di un duello fra i due rami famigliari da cui era composto il clan dei Pesaro e che si svolse per intero dentro la Ca’ Granda, ossia nella Basilica dei Frari, e che portò straordinari benefici alla storia dell’arte veneziana.
A iniziare pubblicamene l’inimicizia tra i due Pesaro fu Benedetto, morto nell’agosto 1503 sulla sua galea, sembra per il dolore della cancellata vittoria di Santa Maura. Eterno come il marmo volle il proprio monumento Benedetto, di un’eleganza classica creata dai Bregno nelle forme più dell’arco di trionfo che di una tomba e che, nell’essere arco, offre il passaggio nella sagrestia dei Frari, dove la famiglia di Benedetto aveva voluto ci fosse lo stupefacente trittico con cui Giovanni Bellini, nel dare forma alla dottrina dell’Immacolata Concezione, avvolge con i suoi colori dell’anima il culto di Venezia. E lo fa dipingendo i Santi Patroni eponimi di alcuni Pesaro molto stimati nella Serenissima alla fine del Quattrocento.
Tutto “politicamente corretto” si direbbe oggi, dal monumento trionfale per Benedetto al trittico di Bellini. Prudenza politica che, al contrario, non fu mai praticata da Jacopo. A capirlo perfettamente fu Rona Goffen, grande storica dell’arte veneziana: «Molto tempo dopo che la battaglia era finita e molto tempo dopo la morte del suo antagonista, Jacopo non aveva ancora perdonato a Benedetto di essersi preso il merito della vittoria di Santa Maura, sia in vita che, addirittura da morto nella decorazione con i bassorilievi di Cefalonia e Santa Maura sulla sua tomba grandiosa. La Madonna di Casa Pesaro costituisce, in parte, la sua ultima parola al riguardo». Un’ultima parola che suona di nuovo irresistibile dopo il restauro sostenuto da Save Venice e che ci fa riscoprire una bellezza dovuta alla forza che si libra su tre piani. Fino a quello che si intravvede in alto ergersi tra le nuvole di un mistero incomprensibile, al di sopra delle due colonne senza fine, oltre lo spazio del dipinto, molto oltre il tempo di chi si trova in basso sul piano degli offerenti e di Jacopo il committente ostinato e del giovanissimo Pesaro, che ci guarda per ormeggiare il nostro sguardo nella storia incancellabile degli uomini, in un “qui e ora” che vale per noi e per chi verrà dopo di noi.
Più sopra si rafforza il piano del dono assoluto che serve per consentire ogni possibile traversata secondo la lezione francescana della dottrina della Concezione senza peccato, e che quindi è posta al di sopra di San Pietro, dei Santi Francesco e Antonio. Tanto da potere, la Madonna, annunciare ed esibire il destino del Figlio.
Ma il prodigio dipinto da Tiziano esaltante per «certi suoi tagli, certe innovazioni», mantiene ancora un suo segreto, quello rappresentato dalle due colonne senza fine.
Cosa significano quelle due enormi colonne attorno a cui si svolge tutta la scena e che Tiziano ottiene dopo non poche “correzioni”? Secondo alcuni studiosi esse fanno riferimento alle parole dell’Ecclesiaste in cui si accenna alla “columna nubis”, pertanto alla dottrina dell’Immacolata Concezione, ovvero alla Vergine, quindi a Venezia, città della Vergine. Ma se dessimo ascolto ad una suggestione suggerita dal direttore di questo giornale, la colonna alle spalle della Vergine andrebbe di sicuro letta come simbolo di Venezia, mentre quella che sembra innalzarsi dietro San Pietro significherebbe Roma. Se così fosse, saremmo al politicamente scorretto fino alla fine praticato da Jacopo Pesaro.
In realtà il duello tra il Pesaro “romano” e il Pesaro “veneziano” non ebbe mai termine, nemmeno quando Jacopo morì nel 1547 e volle che sulla sua tomba a muro, nella più breve distanza dalla Madonna di Casa Pesaro, dove lo si vede vivo e fiero del suo stendardo con lo stemma del papa Borgia e dei Pesaro, ci fosse scritto «Jacopo Pesaro, vescovo di Paphos, vinse in guerra i Turchi e se stesso in pace».
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