Pierre Rosenberg «Venezia, il futuro è nella cultura»

«In altre città il turismo è più aggressivo qui c’è una vitalità nascosta da riscoprire»
Di Enrico Tantucci

di Enrico Tantucci

La sciarpa rossa che porta sempre al collo è ormai il suo segno distintivo e la sfoggia anche quando cala a Venezia, una settimana al mese. C’era anche pochi giorni fa, quando ha partecipato al museo Correr alla presentazione e all’inaugurazione della magnifica mostra di disegni francesi della Collezione Prat, organizzata dalla Fondazione Musei Civici, di cui è stato il curatore.

Perché Pierre Rosenberg, 81 anni portati con la stessa ironica leggerezza con cui formula i suoi giudizi, già direttore e presidente del Louvre oltre che famoso storico dell’arte, a Venezia è di casa. A Dorsoduro, per la precisione, nella casa in cui Wagner scrisse il secondo atto del Tristano.

E ogni mattina la sosta in un bar della tradizione veneziana come Tonolo, per una meringa e un caffè, è una tappa obbligata. Per questo una conversazione con lui offre anche uno sguardo diverso su una Venezia comunque vissuta da vicino.

Professor Rosenberg, lei è anche da diversi anni presidente dell’Alliance Française di Venezia, l’Associazione che promuove la cultura francese nel mondo. A Venezia i francesi sono sempre di più.

«È vero, hanno ormai preso il posto degli inglesi come frequentatori privilegiati di Venezia. Se si va in aeroporto e se si osserva il numero dei voli tra Parigi e Venezia, si vede che è impressionante. Il ruolo dell’Alliance è anche quello di rendere sempre più strette le relazioni tra Venezia e la Francia e da parte mia è sempre un piacere collaborare con il direttore della Fondazione Musei Civici Gabriella Belli, come per la mostra dei disegni della Collezione Prat, molto stimata anche in Francia. Ma ci sono altri francesi che fanno molto per Venezia, come Jerome Zieseniss, che con il Comitato di Salvaguardia francese ha prima contribuito al restauro del Palazzo reale e ora del Ducale».

Da quando frequenta Venezia?

«Da sempre. Ho cominciato nel ’61, quando a Parigi ho curato una mostra sulla Venezia del Settecento nella cultura francese. Da allora ho sempre dedicato più tempo a Venezia, tanto da venirci più o meno una settimana al mese e a prendere anche casa qui con mia moglie».

Cosa trova a Venezia che non ha a Parigi?

«La pace. A Parigi ho troppe distrazioni, qui invece posso lavorare con tranquillità ai miei libri. Venezia è per me la città ideale per questo. Inoltre io amo molto la musica e la città è cresciuta molto sotto profilo in questi anni».

Ma non la disturba progressiva l’“invasione” dei turisti? Cosa ne pensa?

«Penso che da questo punto di vista Venezia stia meglio di altre città d’arte italiane, perché almeno qui il turismo è concentrato in alcune zone della città come Rialto e San Marco, mentre a ad esempio a Firenze la città è completamente occupata. Venezia ha bisogno del turismo e a mio avviso sbaglia a demonizzarlo.Certo, la città ha i suoi problemi, ma credo che il suo futuro sia legato soprattutto alla cultura. Ad esempio credo molto nella collaborazione tra le Gallerie dell’Accademia e la Fondazione Musei Civici, con alla direzione delle due istituzioni due donne di grande valore come Paola Marini e appunto Gabriella Belli. Ma penso anche al lavoro importante sulla valorizzazione del vetro artistico che David Landau sta compiendo con il ciclo di mostre organizzato dalla Fondazione Cini. Anche se Murano oggi è un po’ in crisi, il vetro è un altro dei punti di forza di Venezia, oltre che una mia passione».

È un collezionista?

«Si, di animaletti di vetro, anche da pochi euro. Ne ho ormai migliaia, distribuiti tra la casa di Venezia e quella di Parigi. Tutto è cominciato molti anni fa, quando ero a pranzo in un noto ristorante veneziano, che metteva in vendita anche questi animaletti di vetro. Al momento di pagare, mi sono accorto che erano meno cari del conto del locale, e così ne ho comprato uno e ho cominciato la mia collezione».

Oltre che presidente dell’Alliance, lei è socio dell’Ateneo Veneto e dell’Istituto Veneto. Eppure a Venezia i suoi interventi pubblici sono rari.

«Quando me lo fanno notare, racconto sempre la barzelletta di quel villaggio mesopotamico di duemila anni fa, tormentato da un feroce leone. Per liberarsene, gli abitanti gli mandano contro il più robusto di loro, ma viene ucciso. Stessa sorte per altri “campioni” mandati ad affrontarlo. Gli abitanti sono ormai rassegnati, quando un tipo mingherlino chiede di provare anche lui ad affrontare il leone. Scettici, gli abitanti lo lasciano comunque provare. E lui si avvicina al leone, gli dice qualcosa e lo fa scappare spaventato. Sollevati ma increduli, gli abitanti del villaggio gli chiedono: “Come hai fatto a farlo scappare?”. E lui: «Gli ho detto che avrei fatto un discorso...».

Mi sembra di capire che lei non è pessimista sul futuro di Venezia.

«Per me sono i veneziani a essere troppo pessimisti. Io ho diversi amici veneziani, anche se vorrei averne di più, e cerco quelli “nascosti”, che testimoniano comunque la vitalità di questa città e dei suoi abitanti, che resiste. Penso ad esempio a un grande artista del vetro a lume, come Fabio Amadi, che lavora a San Polo e che magari in molti non conoscono. Questa Venezia nascosta esiste, bisogna solo riscoprirla e valorizzarla».

Rimpiange gli anni del Louvre?

«Assolutamente no, anche perché il ruolo del direttore di quel museo è molto cambiato, anche per la nascita dei musei “satelliti” come quello di Abu Dabhi. Inoltre il direttore del Louvre attuale non dorme per il problema della sicurezza, che è diventata una questione veramente impegnativa per i musei. A Venezia, da questo punto di vista, tutto è affrontato con molta leggerezza. Bene così, finché dura».

A proposito di Venezia e della sua cultura artistica, oggi si parla più di arte contemporanea che di arte antica. Cosa pensa a questo proposito del suo connazionale François Pinault e della sua Fondazione che ha preso in gestione Palazzo Grassi e la Punta della Dogana?

«Non dimenticherei il ruolo della Collezione Guggenheim, ma per quanto riguarda Pinault, Palazzo Grassi e Punta della Dogana sono certamente molto importanti per la città nell’ambito del contemporaneo. Come lo è naturalmente la Biennale, anche se non sono sicuro che i veneziani la sentano come un’istituzione propria».

Qual è il “segreto” della sua sciarpa rossa? Perché la indossa sempre e non se ne separa mai?

«L’ho indossata molti anni fa per puro caso e poi non l’ho più tolta. È diventata una civetteria, senza alcun significato particolare»

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