Il coraggio della poesia: a Stefano Dal Bianco il Premio Saba
Alle 18 al Museo Lets di Trieste la cerimonia di consegna del Premio Saba al poeta di origini padovane. «Saba sapeva meravigliosamente mettersi in gioco con il lettore»

Di origini padovane, ma vive a Siena: Stefano Dal Bianco vince la V edizione del Premio Saba. Classe 1961, è finora il poeta più giovane ad aver ricevuto il riconoscimento, dopo aver trionfato anche all’ultima edizione del Premio Strega Poesia. Poeta sì, ma anche docente universitario, da sempre critico e metricista: «Non amo la critica», dice. E infatti l’inabissarsi nel ritmo e nel suono dei grandi autori è stato un modo per sfuggirle.
Dal Bianco sarà premiato oggi, 21 marzo, al Museo della Letteratura LETS (ore 18) per “Paradiso” (Garzanti, pag. 160, euro 19). A parlarne la stessa Giuria presieduta da Claudio Grisancich e composta da Roberto Galaverni, Franca Mancinelli, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta.
Domanda d’obbligo: nella sua poetica qual è il codice comune con Saba?
«Saba possiede due cose che non tutti i letterati sono in grado di apprezzare: la freschezza e il coraggio. Per me è sempre stato importante andare incontro al lettore, quindi mettersi in gioco. Saba l’ha sempre fatto e meravigliosamente. Se il nostro bagaglio formale avesse previsto solo Montale ed Ungaretti, ci sarebbe mancato l’esempio di questa audacia. Un altro elemento che ammiro è la sua volontà di racconto. A differenza di altri grandi poeti, Saba ti dice sempre l’origine della sua ispirazione, te la racconta espressamente».
“Paradiso” potrebbe evocare qualcosa di metafisico, mentre è una raccolta assolutamente terrena ma che allude continuamente al nostro stato di incompiutezza. È così?
«Sì. C’è sempre questo non sapere. Naturalmente il “Paradiso” a cui alludo non è quello dell’alto dei cieli, bensì un paradiso terrestre. Il tentativo è quello di mettersi in ascolto dei messaggi che ci manda la natura, il paesaggio, confidando nel fatto, come diceva Zanzotto “che la natura conferisce identità”. È un’esperienza che abbiamo provato tutti quando ci troviamo da soli davanti a un prato, al mare o in mezzo a un bosco, lì sentiamo che la natura ha una temporalità diversa dalla nostra...»
Infatti lei affronta questo complesso rapporto tra natura e cultura, l’impossibilità di una “conoscenza” attraverso la cultura...
«Certamente da quella parte non ci si può arrivare. È quello che in fondo i poeti hanno fatto ben prima del romanticismo, prima di Leopardi, di Hölderlin o di Zanzotto. I poeti hanno sempre ascoltato la natura, basti pensare a Petrarca».
Tuttavia questa attenzione all’animalità, ma anche all’animale preso nelle sue singolarità, è un tema assolutamente contemporaneo. Penso al suo cagnolino Tito, tra i protagonisti del libro.
«Sì è vero. Poi penso al cane che è un animale perfetto per fare da tramite con la madre terra, perché è l’animale più umanoide che c’è. Cercare di entrare nella testa di un cane è più facile che entrare nella testa di un orso. Per cui è l’ideale per interpretare una sorta di Virgilio in questo contesto naturale. Certo poi bisognerebbe approfondire tutta questa tendenza ecologista, capire davvero che significhi perché di fatto siamo tutti ecologisti ma in nome di che cosa? Qual è il nostro scopo? Cos’è che non vogliamo perdere o vogliamo guadagnare? La lancia da spezzare è il sacro che sta nella natura, ciò che dicevo prima, davanti a un paesaggio naturale sentiamo questa cosa potentissima e anche inquietante per certi aspetti. Questo libro è stato scritto durante la pandemia, c’erano aspetti inquietanti, venivano dalla natura stessa che, come scrivo, era “inferocita e onnisciente”. Durante la pandemia nel mio borgo toscano c’erano i daini per strada e i lupi di sera, restituendoci una dimensione potentissima».
È scontato che la sua formazione aiuti la poesia ma come, l’essere poeta, aiuta il suo ruolo di docente universitario?
«Io non amo la critica e una dei modi per sottrarmici è stato entrare direttamente nella testa dei poeti, di qualunque epoca fossero».
Come?
«Attraverso il profilo del ritmo. Quello su cui ho sempre fatto ricerca è il ritmo del verso italiano. A quel punto hai veramente a che fare con la testa di Petrarca o di Ariosto. Questa esperienza, entrare nel ritmo dei poeti, è stato il mio modo di sottrarmi alla critica letteraria che considero terribilmente accessoria. Sono cresciuto con questo tipo di sensibilità concreta, non con i saggi critici, ma con un rapporto diretto con il testo».
Quali maestri del verso consiglierebbe di leggere ai giovani, autori o meno che siano?
«Per entrare in quella che è la musica dell’endecasillabo italiano consiglio sempre di leggere interamente “Orlando furioso”. Ariosto quindi, per entrare nella lingua con un testo più vivace». —
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