Psychiatric Alcatraz, il circo teatralizzato conquista Padova

PADOVA. «Scusi, da dove si entra?» «Non me ne frega un ca... Levati dai coglio... E tu – a chi ha il cellulare e riprende – spegni sto coso e smettila di fare il giapponese del ca...». È l’accoglienza di uno degli attori di Psychiatric Circus, allo spettacolo “Alcatraz”. È vestito da poliziotto, ha una faccia da galeotto e riceve così il pubblico che paga da 20 a 40 euro per guardare il circo moderno.
È uno shock. Ma uno shock così potente che ci sono spettatori alla loro terza volta, che sono arrivati fino da Udine per assistere allo spettacolo in scena in Fiera fino al 27 gennaio e che ha generato in città un tornado di curiosità.
Siamo negli anni Cinquanta, ad Alcatraz, ci sono detenuti e malati di mente, si susseguono numeri da circo, ma più forti, perché il contesto è un viaggio tra prevaricazione, soprusi, violenze e sevizie. Intorno la follia, espressa da acrobati che si prestano alla recitazione e attori che diventano acrobati.
L’esibizione inizia molto prima di entrare nel tendone: frustrate, urla, la sirena che in carcere dà l’allarme; qualcuno viene addirittura perquisito: i volti sono preoccupati, i sorrisi un po’ tirati, ma poi mentre le guardie frugano nelle tasche degli spettatori, accennano un balletto.

È tutta finzione, non c’è davvero da preoccuparsi. Il linguaggio è volutamente scurrile. Tutto è a servizio dello shock: viene disegnato l’immaginario collettivo che accompagna la violenza vista al cinema, nei film horror, quello che atterrisce anche l’inconscio.
“Alcatraz” è tante cose: performance circense, rappresentazione drammatica, musical, Cirque du Soleil, splatter e cabaret. L’attesa fuori è tanta: c’è chi è venuto per la stranezza dell’idea; chi l’ha già visto addirittura tre volte ed è tornato portando perfino la mamma; chi vuole ridere di umorismo macabro e chi, come Chiara e Giorgio, coppia da 20 anni, confida: «Abbiamo riso davvero tanto due anni fa, ma siamo stati anche alcuni giorni a pensare e questo non capita spesso quando si va a uno spettacolo».

Ad un tratto è buio. Poi una luce accecante dà il via ad una voce fuori campo: «Alcatraz 1950. Mi manca l’aria». È uno spettacolo, è vero, lo sanno tutti, eppure crea disagio.
La chiave è ironica e insieme inquietante. Si ride molto, a volte anche per scaricare la tensione. Il coinvolgimento del pubblico è un altro potente deus ex machina, sia quando i “matti” guardano le persone dritto negli occhi, le sfidano, le provocano; sia quando gli spettatori sono chiamati sul palco per essere derisi causticamente.

Alcuni numeri sono al cardiopalma: il poliziotto lancia i coltelli; Ivan, un carcerato strafottente, dal corpo scultoreo e la fisicità muscolare, vola per l’Arena appeso a una corda. È un tentativo di fuga, la poesia della libertà irraggiungibile. Il pubblico si entusiasma, anche se i numeri non sono sempre collegati. La parte più debole è il dolore, malgrado l’esibizione di crudeltà e la negazione della pietà, l’empatia è meno emozionante.

Il finale è affidato al pagliaccio: «Volete sapere cos’è la follia? Chiedetelo a un matto. Vi dirà che siete voi i matti, i fuori di testa. Chi ha ragione? Chi è matto? Loro, sempre loro. Tu sei quello sano, quello giusto quello che ha sempre ragione. Rilassati, stai tranquillo, siamo tutti matti». Lungo applauso finale. Si replica fino al 27 gennaio.
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