Quel mondo sconosciuto «Mi racconti il tuo sogno?»

SECONDA PARTE

I sogni degli altri



Uscito dalla sua camera, Veronico si mise a camminare nelle stanze buie della casa. Per la verità, in casa il buio non era totale. C’era una specie di penombra, una sfumatura di luce debole. Quel chiarore appena accennato non stava fermo. Si spostava e cambiava di intensità, anche se in maniera quasi impercettibile. Era come una nebbiolina rosa, che in certe stanze si stendeva sul pavimento, in altre si concentrava sui davanzali delle finestre, con una linea sottile e tenue.

Saranno i fari delle automobili che passano, si disse Veronico, pensando che fossero le loro luci a lambire le finestre di casa, anche se fuori non si sentiva risuonare nessun motore.

Passo dopo passo, si avvicinò alla camera dei suoi genitori. Accostò l’orecchio alla porta. Sentì il loro respiro pesante. Russavano tutti e due. La porta era socchiusa; la spinse leggermente. Anche nella stanza dei genitori ritrovò quel chiarore leggero, sfumato, che colorava di rosa l’aria scura. A Veronico sembrò che quella luce si fosse tirata indietro, quando lui aveva aperto un po’ la porta, come se fosse stata colta di sorpresa e non volesse farsi scoprire.

Nella penombra intravide due sagome distese a letto. Eh sì, la mamma e il papà dormivano profondamente.

Adesso vi avverto che devo spiegarvi un paio di cose, se no poi la storia non si capisce. Perciò, mentre io vi spiego, lascerò in piedi Veronico per un po’, lì, sulla soglia della camera dei suoi genitori, mentre li guarda dormire e prende una decisione molto importante, che farà succedere prima un incidente, e poi… Ve lo dico dopo, promesso. Ma voi avvertitemi, non vorrei dimenticarmi di lui. Fate così: mettete un timer, come quando si deve calcolare il tempo che ci vuole per cuocere un uovo sodo. A me basterà molto meno. Facciamo… tre; no: quattro minuti. Quando scadono avvertitemi però! Siamo d’accordo? Bene. Avete messo il timer? No? Forza. Allora, fatelo partire al mio via. Conto fino a tre: Uno, due, tre… Via!

Veronico non capiva bene che cosa significasse quella cosa: dormire. Perché le persone a un certo punto della giornata, di solito verso sera tardi, chiudevano gli occhi e non si muovevano più? Anche lui si riposava disteso a letto. Ma mica dormiva! Riposarsi era un conto, spegnere l’interruttore della testa e smettere di pensare, un altro. E invece facevano tutti così. Sprecavano un sacco di ore rimanendo spenti, come una radio o un computer senza corrente elettrica.

Per la verità, qualcosa nelle loro teste succedeva: una specie di film personale, come dei video che potevano vedere solo loro. Ogni persona che dormiva era la protagonista di un’avventura fatta apposta per lei. E quelle avventure avevano un nome: si chiamavano sogni.

A Veronico dispiaceva molto di non poter sognare. Non sapeva proprio che cosa fosse un sogno. Com’era fatto? Che cosa si provava? Avrebbe tanto voluto vivere quell’esperienza. Ma come fare, se era un bambino che non dormiva mai?

A scuola c’era una bambina molto amica di Marco Sandroni. Gli assomigliava anche un po’: come lui era spavalda, trattava male tutti. Un giorno però Veronico si fece coraggio, andò da lei e le disse: “Mi racconteresti che cosa hai sognato stanotte? ”

“Perché me lo chiedi? ”, gli disse lei.

“Perché ho bisogno di ascoltare i sogni degli altri, e i tuoi devono essere speciali”.

La bambina non se l’aspettava, e invece di rispondergli male, come faceva sempre con tutti, gli raccontò il sogno che aveva fatto quella notte.

Ho dimenticato di dire che si chiamava Sabrina. Da quel giorno Sabrina e Veronico cominciarono a conoscersi. Ma anche questo a Veronico creò un altro grosso problema.

Non solo fa finta che io non esista. Adesso mi ruba anche le amiche!

Avete capito chi era che aveva pensato questo? Eh certo! Proprio Marco Sandroni.

Sabrina, ve l’ho già detto, era molto amica di Marco Sandroni, ma a poco a poco diventò amica anche di Veronico. Questa fu un’altra cosa che Veronico pagò molto cura, volevo dire, pagò molto cara, perché Marco Sandroni si arrabbiò tantissimo; era geloso della nuova amicizia fra loro due. Passò a fargli scherzi ancora più pesanti e più dolorosi. Gli metterò una puntina sulla sedia, così si punzecchia il calo, volevo dire il…

Che cos’è questo squillo? Mi sembrava di averlo spento, il telefono. Hanno suonato alla porta? A quest’ora? Ma è vietato fare visite, non lo sanno? Ah, sì, giusto! Grazie di avermi avvertito.

In effetti, Veronico è lì che aspetta che io torni da lui a raccontare la prima notte che passò fuori dal suo letto. Non ne potrà più di stare fermo impalato ad aspettarmi, mentre io perdo tempo a cianciare. Arrivo, arrivo!

Ecco cosa stava succedendo.

Staranno sognando, pensò Veronico riaccostando la porta della camera dei suoi genitori. Poi decise di fare una cosa. Tornò nella sua stanza, e invece di stendersi di nuovo a letto, si vestì. Si mise le calze, i pantaloni, una maglia, il giubbotto e un berretto di lana in testa. Le scarpe per il momento non le indossò, le prese in mano, camminò con le calze ai piedi, per non fare rumore; si infilò le scarpe solo quando fu arrivato alla porta d’ingresso.

Le chiavi erano appese lì vicino: le prese, se le mise in tasca e uscì di casa. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA



(2 - continua)

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova