Rosacroce, artisti sacerdoti della bellezza ermetica

Così il simbolismo mistico segnò i sentieri verso Surrealismo e Astrattismo La curatrice per due anni ha cercato le opere e consultato archivi e biblioteche
Del Simbolismo si è molto visto e parlato negli ultimi decenni. Forse appassiona l’analogia col presente: l’arte anti-moderna di fine Ottocento interpretava il desiderio di fuga, quantomeno ideale, dal mondo ordinario sempre più volgare. Il Simbolismo ha fornito consolazione spirituale e godimento estetico, tanto più se intrecciato all’Art Nouveau. Tuttavia c’è un filone estremo di quella tendenza, l’arte dei Rosacroce, che non concede ristoro ma aumenta la tensione mistica. Se il Simbolismo per sua natura rifiuta la realtà ed escogita immagini e stili che evocano un mondo sovrasensibile, i Rosacroce ne esaltano la radicale avversità. Ripudiata ogni forma di oggettività, compresa quella dell’Impressionismo, i simbolisti estremi più che all’estetica puntano all’estasi dove convergono culti cristiani e occultismi pagani.


La mostra in corso alla Collezione Guggenheim di Venezia fino al 7 gennaio è un esempio di mostra eccellente, di quel genere diventato ormai molto raro dove le opere sono cercate e non trovate, si allestisce con ciò che non può mancare e non con ciò che si può avere con facilità in prestito. Vivien Greene, senior curator del Guggenheim di NY e curatrice della mostra, ha girato per due anni mezza Europa (Svizzera, Belgio, Francia, Germania), scavato in archivi e biblioteche, indagato su giornali d’epoca per rintracciare le opere che avrebbero consentito di ricostruire quella singolare avventura artistico-letteraria e spiritualistica. Tutto ruota intorno al vate, poeta e critico, Joséphin Péladan, gran maestro dell’Ordine che si attribuisce il titolo di Sâr Merodak, un ibrido linguistico ebraico e assirobabilonese per dire maestro e guida. Personaggio eccentrico, esaltato, narcisista fino alla paranoia, Péladan in fondo non era molto diverso da Marinetti che pure inizia come poeta simbolista. Persino Hugo Ball, fondatore del Cabaret Voltaire, laboratorio del Dadaismo, dopo l’avventura zurighese ripiegherà verso sacri lidi aspersi d’incenso. Quel che più conta e che emoziona in questa mostra è vedere la caratura immaginifica e linguistica degli artisti che parteciparono ai Salon de la Rose+Croix dal 1892 al 1897. Hodler, Khnopff, Toorop, Desboutin, Delville, Bourdelle, Rouault, Valloton, Séon, Filiger, Maurin. Tutti insieme, il top della visionarietà nelle lingue visive dell’extra sensoriale, intorno a un barbuto sacerdote della religione dell’arte. Da quel crogiolo uscirono molti sentieri che giunsero, per le misteriose vie dell’arte, al Surrealismo e all’Astrattismo di matrice spiritualista come in Kandinsky e Mondrian.


La mostra s’intitola “Simbolismo Mistico. Il Salon de la Rose+Croix a Parigi, 1892-1897”, che la Greene definisce “una chiamata alle armi nel nome del culto della bellezza” intesa in senso arcano ed esoterico. Dunque niente occhio fisico, aboliti i servigi della retina ci si affida solamente all’occhio interiore: “Chiudo la porta su me stessa” è il titolo di un celebre, inquietante, dipinto di Khnopff. La visione interiore è l’unica in grado di collegarsi al mondo sovrasensibile e di scoprire il sacro Graal ovunque si celi, di andare e tornare dagli inferi come il mito più caro, quello di Orfeo che, fatto a pezzi dalle Menadi, continua a cantare con la testa unita alla lira. L’Ordine dei Rosacroce venne prima e sarà dopo l’avventura della confraternita di Péladan, ne rende locale testimonianza a metà Seicento, l’alchimista e filosofo tedesco naturalizzato veneziano, Federico Gualdi. Ma quegli anni e quella temperie dell’ultimo decennio dell’Ottocento segnarono un confine netto intorno a un misticismo arcano che attinge ai miti e alle sacre scritture per elevarsi oltre ogni confine terreno. Il Salon diventa una specie di chiesa della bellezza ermetica: gli artisti ne officiano il culto. A un secolo dalla Rivoluzione quel manipolo di artisti ispirati da Péladan battono in ritirata dal positivismo e dalla secolarizzazione. Al culto della ragione e delle scienze esatte oppongono il sincretismo religioso, l’ascetismo orientale e l’occultismo. Le sette esoteriche si moltiplicano: rifuggono la modernità, l’alienazione dell’uomo nella macchina, il materialismo. La Teosofia è l’altra sponda d’approdo per molti artisti.


Il primo Salon dei Rosa+Croce si tenne nel 1892 alla galleria Durand-Ruel (il luogo cambierà ogni anno). L’inaugurazione fu un evento memorabile, ribattezzato da Péladan “geste esthètique”. Il consenso, almeno per quella prima volta, fu plenario. Tutti, da Zola a Verlaine, da Vittore Grubicy, che suggerì l’adesione di Previati, al “Mercure de France”, ne decretarono il successo. In mostra alla Guggenheim un buon numero dei quadri presenti a quel primo Salon che mostrano sia le figure a filo di contorno e tinte piatte dei Nabis di Filiger e dello “scandaloso” Maurin, sia il rigoglioso intreccio della “foresta magica tropicale” carica di simboli di Toorop, sia la raggelata desolazione di Hodler. In quell’occasione Vallotton, che era il più riluttante e il più critico del gruppo, espose le sue celebri incisioni. Estrema fu anche la concezione della donna: pauroso Idolo della perversione, come recita il titolo del dipinto del belga Jean Delville, o Giovane santa (Henri Martin) e Ancilla Domini (Armand Point). Il sipario sul Salon dei Rosa+Croce si chiude con l’ultima esposizione del 1897. L’estremismo di Péladan era già passato di moda, la modernità andava avanti. Ma i semi gettati porteranno frutti anche dopo le avanguardie storiche.


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