Scarpa: «La poesia è un raccolto»

Esce “Le nuvole e i soldi”. «È un componimento adatto anche alla rete»

La collana, la bianca di Einaudi, è indubbiamente la più prestigiosa per la poesia italiana. Il titolo, “Le nuvole e i soldi” (p.118, 11 euro), sembra riassumere con sufficiente chiarezza, il tono contrastante dei versi di Tiziano Scarpa, in costante equilibrio tra alto e basso, tra sentimento e realtà, tra lirica e ironia. A pochi mesi dall’ultimo romanzo, lo scrittore veneziano arriva in libreria con una raccolta di poesie - che verrà presentata venerdì alle 18.30 al punto Einaudi di Venezia - che copre un lungo arco temporale, anche se perlopiù si collocano negli ultimi quindici anni.

Che ruolo ha la poesia per uno scrittore che frequenta soprattutto il romanzo?

«Conosco almeno una trentina di poeti, a cominciare da Laura Pugno e Gianmario Villalta, che hanno scritto anche ottimi romanzi. Spesso penso che la scelta tra poesia e prosa dipenda soprattutto da quale editore ti pubblica prima. La mia consuetudine con la poesia è sempre stata costante. È vero che questo libro è più ricco, ma è il quarto, che pubblico. La poesia non la rincorro, posso anche non scrivere poesie per un anno o due, non mi sento male se non vengono, mentre mi preoccupo se la stessa cosa avviene per la narrativa e il teatro. Le poesie quando arrivano arrivano, anche in maniera massiccia, esigente, infervorata. Rispondono a un pungolo più che ad un progetto come i romanzi. Perciò questa non è una raccolta di poesie, ma un raccolto».

Una serie di queste poesie si intitola “poesia scritta dalle parole”. È un tema che c’è anche nell’ultimo romanzo.

«È un tema che occupa la mia scrittura da una decina di anni. Sento la lingua come un soggetto autonomo, mi sembra di vederla nella bocca degli altri, come se fosse un animale, e ognuno ha il suo, giraffa o giaguaro che sia: i telecronisti hanno una lingua, i politici un’altra ed è questa lingua a parlare nelle loro bocche».

In queste poesie, come anche nelle raccolte precedente, c’è un ricorso frequente al metro, alla rima.

«Si, ho anche scritto trenta storie in rima che pubblicherò in autunno. La rima, il ritmo mi piacciono perché mettono la lingua in primo piano. Sono un attrito, è come dire “questa cosa che ti comunico è fatta di parole”. Nel romanzo comanda l’immaginazione e chi legge deve quasi dimenticarsi della lingua. Nella poesie comanda la lingua».

Un altro tema frequente nel libro è quello dei morti. Le parole vengono dai morti.

«I morti sono la tradizione, l’eredità che ipoteca le nostre vite, anche sul piano economico, politico. Una eredità fatta di parole che ci condizionano. Se non esistesse la parola felicità vivremmo meglio, perché non ci chiederemmo se siamo felici o meno. Fino al Settecento la parola nostalgia non esisteva e di conseguenza non si poteva identificare quel tipo di sentimento. In questo senso le parole vengono dai nostri morti».

C’è anche il tema della paternità mancata che ritorna.

«È strano, ma mentre c’è consapevolezza del desiderio di maternità, quello di paternità non è riconosciuto. Molte donne pensano proprio che non esista. Tra i trenta e cinquant’anni ho visto trascolorare la possibilità di diventare padre e questo è stato a volte un peso, altre un sollievo. È un lutto, sia pur blando».

La poesia sembra in ripresa. C’è un perché?

«Forse perché la poesia è come quelle piante che crescono negli interstizi, nelle fessure, nelle crepe, nella pavimentazione. È breve, è adatta a circolare in rete, si può leggere sul telefonino. Leggere un romanzo è come passeggiare in un parco: devi programmarlo, uscire di casa apposta, avere il tempo; la poesia è un ciuffo di fiori di cappero che può insaporire la giornata anche se la leggi in facebook».

Nicolò Menniti-Ippolito

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