Sperimentazione e denuncia in un punto dal quale partire Era la Padova di Gaetano Pesce

Con le sue opere è tornato in città il ricordo di anni in cui la creatività era anche provocazione
MARIAN - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - ALLESTIMENTO MOSTRA GAETANO PESCE. L'ARCHITETTO GAETANO PESCE
MARIAN - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - ALLESTIMENTO MOSTRA GAETANO PESCE. L'ARCHITETTO GAETANO PESCE

ELIO ARMANO

A Gaetano, e a tutti noi che gli eravamo amici, era chiaro fin dall’inizio che Padova sarebbe stata stretta: provinciale e troppo angusta per uno come lui che, lo ammettevamo con un misto di consapevolezza ed invidia, ci stava sempre un passo avanti. Eppure sto parlando della Padova vivissima e in continuo fermento degli anni tra i Cinquanta e i Sessanta, quella, per intenderci, del mitico sindaco Crescente e del circolo culturale “Il Pozzetto”, animato dal professor Ettore Lucini, ritrovo di moltissimi intellettuali, artisti e musicisti, tra i quali passò, nel ’59, un allora poco conosciuto John Cage.

Era la Padova di Luginbhul, Businaro, Biasi, Olivotto, di Sandro Parenzo, di un appartato ma attento Ferdinando Camon, di Giuliano Scabia, di De Poli, della galleria “La Chiocciola” di Sandra Leoni e di Mario Pinton, che dall’istituto Selvatico lanciava in Europa la scuola orafa padovana.



Dove e quando con Gaetano ci siamo incontrati, io non ancora ventenne e lui di qualche anno più vecchio, non lo ricordo. Sicuramente ci avvicinò la “battaglia” per il nuovo museo civico: con Gaetano in testa, mentre il consiglio era riunito per affossare definitivamente il progetto di Maurizio Sacripanti, in tantissimi ci presentammo in Comune e lanciammo monetine sul sindaco e i consiglieri. Gaetano aveva lasciato molto presto la facoltà di architettura, nonostante i rapporti con Scarpa, e i suoi giorni erano anche spesi, insieme a Milena Vettore, che sposò sul letto di morte nel 1967, ad autoproporsi nel bosco dell’imprenditoria locale, ben poco propensa a cogliere le novità nel campo del disegno industriale che sarebbe poi esploso.

Del resto, a Padova erano pochi anche tra gli “addetti ai lavori” quelli che sentivano l’aria nuova: Alberto e Annamaria Carrain, il Gruppo Enne e Alberto Carenza, gran patron della Dante Alighieri e tra i primi committenti di Pesce. Ma il suo estro creativo lo portava a combinarne di cotte e di crude, all’insegna di una sorta di spirito dadaista mai sopito. Alla galleria “1+1” di via 8 febbraio si improvvisò critico d’arte presentando in modo immaginifico la mia prima mostra e, di lì a poco, chiamò i padovani a vedere i loro ritratti allestendo una mostra di soli specchi.



Allora Gaetano parlava continuamente di “percezioni elastiche”, inventandone persino un inesistente teorico; non è un caso, forse, ritrovare l’elasticità nelle plastiche e nei poliuretani divenuti il suo materiale e il suo linguaggio artistico. Il suo studio, nelle pause tra un viaggio a Parigi o a Milano, diventò il “pensatoio” di tanti altri eventi, come l’installazione, in un capannone in zona Borgomagno, di un grande scivolo in nylon da dove, dietro un giovanissimo Oscar Passarella legato nudo al vertice, facevamo colare decine di litri di colore rosso che finivano ai piedi degli sbigottiti spettatori: erano gli anni del Vietnam e quello era il nostro modo di denunciare quei tempi di sangue.



E da un happening messo in atto il giorno di Pasqua sul sagrato del Santo, con rami di ulivo e foto di bambini vietnamiti, nacque il gruppo “Azione 67”, con tanto di cariche di polizia e denunce, il tutto fotografato da Giovanni Umicini. Sperimentalismo e irrequietezza si coniugavano alle proposte di design e all’impegno politico, come quando a Venezia, nel maggio del ’68, mentre occupavamo l’Accademia, Gaetano, tornato da Parigi, andò ad occupare da solo la cella campanaria del campanile di San Marco.

Da allora tanti altri incontri ed episodi, sempre mantenendo un filo d’intesa nonostante le distanze geografiche e le differenti scelte di vita. Da Venezia come da Parigi o da New York si faceva vivo all’improvviso, come quella volta che, scoperto sul New York Times il ristorante “Le Calandre”, volle venire a provarlo e mi invitò a cena. Neanche a dirlo, l’incontro fu l’occasione per dare vita ad una clamorosa protesta sui giornali contro il governatore Galan per la rete di trasporti del Veneto insufficiente e obsoleta per lui come per me, entrambi privi di patente ma gran viaggiatori. Bello è per gli amici di un tempo e i giovani di oggi trovare Gaetano in Salone, tornato almeno per un po’ in quella Padova che, forse, non è poi così stretta. —





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