Storia dei Gesuiti nella Venezia della tolleranza

di FRANCO MIRACCO
Chi entra nella Chiesa dei Gesuiti a Venezia può vedere nella prima cappella a sinistra il devastante martirio di un santo spagnolo di nome Lorenzo, con bestialità oppresso dai suoi carnefici in modo che le sue carni prendano il fuoco che arroventa una grata di ferro. Il luogo del supplizio è avvolto in alto da una tenebra fonda rotta dal rosso atroce del fuoco che brucia in basso, al di sotto del corpo del martire. Due altri fuochi minacciosi sono incestati su lance che stentano a dar luce allo spazio dell’oltraggio, reso infernale da fiamme che man mano riducono il colore ad una fuliggine indistinta, a una specie di nera ombra della morte.
Tra le “allucinazioni cromatiche”, come le chiamò Lionello Puppi, di questo capolavoro di Tiziano puoi credere che ci siano tinte spente di nebbie striscianti o tenebrose apparizioni di un verde d’alga marcia. Altri enigmi del colore sono le oscurità in cui si perdono i grigi dei mari in tempesta, i neri delle notti senza stelle, i mutanti colori della polvere sulle paludi, le fortuite dissoluzioni di vapori persi tra l’orizzonte e le isole.
Qualcosa di molto simile alla tizianesca aria caliginosa c’è nelle immagini con cui Martin Scorsese ha “dipinto” il suo “Silence”: luci malate, livide,ma poi l’erba, il bosco, la sabbia, il mare, il fango, soprattutto il sangue dei supplizi subiti dai martiri cristiani nel Giappone del XVII secolo, hanno tonalità di un unico colore, quello dell’agonia, del terrore,della morte nell’anima e nella natura. Il film, più che aderente riproposta visiva del romanzo “Silenzio” dello scrittore giapponese e cristiano Shusaku Endo (1923-1996), è il racconto drammatico di ciò che avvenne nel corso delle persecuzioni, delle torture fisiche e psicologiche, dei massacri disumani che falcidiarono in Giappone, attorno al 1637, le comunità dei cristiani giapponesi e con loro anche molti gesuiti.
Ora, senza alcun eccesso immaginativo, passiamo ad un altro tempo, ad un altro luogo,passiamo cioè nella Venezia del 1537,esattamente un secolo prima dell’incubo notturno e sanguinario del Giappone del Silenzio, allora dominato dalla setta buddista della Vera e Pura Terra; a suo modo una sorta di antenata in dottrine semplificate dall’odio per il diverso, tutt’altro che scomparse nel mondo di oggi.
Si è detto della “mezzanotte profonda” in cui Tiziano collocò il male totale dei carnefici e il santo eroismo di Lorenzo martirizzato, un’immensità dell’arte che di sicuro avrebbe rovesciato la disperazione in speranza nei cristiani giapponesi e nei missionari gesuiti.Non in tutti, perché alcuni di loro, invece, abbattuti nel corpo e nello spirito, si rassegnarono all’atroce rinnegamento della loro dignità di sacerdoti e della loro stessa fede.
Quando, nell’inverno del 1537, arrivano a Venezia nove giovani partiti a piedi da Parigi, o meglio, dalle aule di filosofia e teologia, e che, appena arrivati, si inginocchiano nella sola città da dove ci si può imbarcare per il pellegrinaggio a Gerusalemme, Tiziano sta creando luci e colori erranti sulle campagne, sulle lontananze dei monti, su piccoli borghi e foreste deserte da cui si alza la poesia del sacro, nel prodigio di paesaggi che annunciano i pensieri moderni della pittura.
Anche i nuovi arrivati sono portatori di modernità, di altro genere ma pur sempre modernità, nel senso, per esempio, di cui ne parlano due gesuiti del nostro tempo, papa Bergoglio e il teologo Karl Rahner: «Alla fine si prosegue a mani vuote.Ma è bene così. Poi si guarda il Crocefisso. E si va avanti. E quel che viene è la beata inafferabilità di Dio».
Il gruppo che, a mani vuote, attraversa l’intero arco alpino fino a Bolzano, prosegue per la Valsugana e raggiunge Venezia l’8 gennaio 1537,dove riabbraccia Ignazio di Loyola.
Ma perché Venezia e i gesuiti? Perché Venezia, nella prima metà del XVI secolo, è il nido, la città giusta in cui provare i primi passi dell’incommensurabile viaggio della Compagnia di Gesù che, inevitabilmente, a Venezia comincia a sognare ciò che diverrà. Ignazio e gli altri sono lì in attesa di potersi imbarcare per Gerusalemme. È questa la meta, la stessa che Ignazio nel 1523 aveva già raggiunto grazie all’immediata partecipazione del doge Andrea Gritti nei riguardi di quel poverissimo pellegrino, cui dona il passaggio su di una nave della Repubblica.
Il pellegrinaggio da Venezia a Gerusalemme costava molto, ma chissà cosa avrà intuito il vecchio doge, il grande combattente della rinascita veneziana dopo la terribile disfatta di Agnadello, quando gli viene fatto incontrare quel giovane spagnolo. Né più né meno che un mendicante, un povero che dorme sotto i portici in Piazza San Marco, di cui però si dice essere di nobile famiglia e con precedenti militari e mondani. E i portici sotto cui dorme l’ex soldato saranno stati quelli dell’Ospizio Orseolo, così come li vediamo allineati col Campanile nella stupefacente, vasta “cronaca” dell’abbagliante Processione in Piazza San Marco dipinta da Gentile Bellini.
È questa la “scena” che accoglie Ignazio, la scena di una Piazza senza fine perché, come scrive Élisabeth Crouzet-Pavan, “suggerisce i legami della città con l’Italia e il Mediterraneo e, anche al di là del suo impero di isole, di banchi e di basi, con orizzonti lontani e meravigliosi”.
Le coincidenze, come si sa, a volte fanno la storia, e il caso vuole che Ignazio arrivi in quella Piazza subito dopo l’elezione a doge di Andrea Gritti, avvenuta la sera del 20 maggio 1523. Il Gritti, mercante ricchissimo, snodo fondamentale di ogni genere di rapporto tra Venezia e il Turco, uomo dalle molte donne, capo carismatico della riscossa militare e politica della Serenissima, sarà il doge dell’ultimo, grande rinnovamento del mito di Venezia. Ed è ancora vivo e doge il Gritti, quando per un anno intero, il 1537, Ignazio (prossima guida del rinnovamento della Chiesa dopo il Concilio di Trento), Francesco Saverio e gli altri compagni confermano, ancora una volta, “il vincolo spirituale di Venezia con la storia della Compagnia nascente”.
A dirlo è stato Kolvenbach,preposito generale dei Gesuiti fino al 2008. È a Venezia che Ignazio viene ordinato sacerdote e così anche gli altri, mentre Francesco Saverio, comunque in terra di San Marco, dirà la sua prima messa a Vicenza. Durante quell’anno fatale per la Compagnia di Gesù, il gruppo guidato da Ignazio e Francesco Saverio si fa conoscere e amare in tutta Venezia. I dieci compagni si annullano nel conforto e nella cura di malattie spesso ripugnanti e ciò avviene nell’Ospedaletto dietro San Giovanni e Paolo e nell’Ospedale degli Incurabili. È in quei luoghi di dolore e di indicibili sofferenze che i nascenti gesuiti compiono i primi passi nel mondo dell’emarginazione, della povertà e delle necessità fisiche e morali,esperienza che diverrà la disciplina di tutte le missioni dell’Ordine, dal Sud America al Giappone.
Venezia tra il XVI e il XVII secolo non poteva non attrarre Ignazio e i suoi. A spiegarlo perfettamente fu Gaetano Cozzi, storico indimenticabile: «Era città che si imponeva più che mai all’attenzione di tutti,tra Oriente e Occidente, città ricca, folta di gente varia di lingue e di costumi e di religione, città che aveva fama di tolleranza, una tolleranza che si accompagnava a un grande rigoglio di vita spirituale».
La Venezia di Andrea Gritti,potente in ogni senso nel famoso ritratto di Tiziano, la Venezia di Jacopo Sansovino, dei Grimani, di Gasparo Contarini, è città di riformatori della politica, della cultura, della religione. È città per davvero “cantiere” aperto, che si pluralizza nelle diversità, nelle onde nuove che giungono in laguna.Ecco perché la Compagnia di Gesù nasce a Venezia, perché soltanto a Venezia quei giovani si sentiranno smarriti quando a sfiorarli sarà l’ampiezza divina della propria e dell’altrui umanità, ed è così che scoprono attorno alla Piazza, dove Ignazio aveva dormito per terra, le strade che li porteranno ovunque nel mondo.
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