Svelate le iscrizioni perdute dei Vizi e delle Virtù di Giotto

Ammannati ha recuperato e decifrato i testi delle allegorie agli Scrovegni
Non sarà come la Particella di Dio, ma la scoperta di Giulia Ammannati, paleografa della Normale di Pisa, che ha recuperato le iscrizioni dei Vizi e delle Virtù affrescati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, è straordinaria. Gli studiosi avevano sempre sottolineato l’importanza di quelle scritte come chiave di lettura delle immagini, ma anche l’impossibilità di restituirne la leggibilità. Ebbene la Ammannati ha sfidato la rinuncia, imbracciato i suoi strumenti di ricerca ed è andata fino in fondo.


È uscito da poco, con l’introduzione di Salvatore Settis, il libro in cui illustra i risultati cui è pervenuta: “Pinxit industria docte mentis”, edito dalle edizioni della Normale. Il titolo è contenuto nell’iscrizione dell’Invidia e l’autore del testo si riferisce espressamente a Giotto: «Ecco qua l’Invidia, con i suoi attributi, dipinta dall’industria di una dotta mente». Contestuale e fattiva appare dunque la collaborazione tra le due “menti”, quella del pittore e quella dell’autore dei testi, volta a fugare ogni altra supposizione critica avanzata in assenza del riscontro letterario.


Le due serie delle Virtù e dei Vizi occupano l’intero registro inferiore delle pareti laterali della Cappella che narra le storie neotestamentarie di Maria e di Gesù culminanti nel Giudizio Universale in controfacciata. Spalle all’abside scorrono sulla parete sinistra le Virtù: Prudentia, Fortitudo, Tenperantia, Iusticia, Fides, Karitas, Spes e sulla destra i corrispettivi Vizi: Stultitia, Inconstantia (l’unica con la scritta completamente cancellata), Ira, Iniustitia, Infidelitas, Invidia, Desperatio. Ogni allegoria è corredata da un’iscrizione che ne illustra le caratteristiche in forma di breve e didascalico componimento in latino ritmico, è dipinta a secco in maiuscola gotica e disposta entro una cornice rettangolare. Le allegorie si corrispondono a specchio e procedono da un lato verso la beatificazione, dall’altro verso la dannazione come nella bipartizione del Giudizio.


Dottoressa Ammannati come è nato l’interesse per queste iscrizioni sino ad oggi praticamente neglette?


«Il mio incontro con le iscrizioni è stato del tutto casuale e imprevisto. Il ricercatore è un po’ come un esploratore: di solito siamo animali solitari, più di tutto ci piace fare di testa nostra, partire alla ventura e andare in cerca del filone d’oro dove nessuno è mai stato prima. Altre volte però, capita che ci arrivi una “soffiata”. Capita che un collega ci segnali un problema interessante in cui si è imbattuto, ma che esula dalle sue competenze e dal suo territorio di ricerca. Ed ecco che, abbandonato tutto, non vediamo più che il nuovo mistero da risolvere. Nel mio caso è stato un allievo della Normale, Daniele Giorgi che sta facendo una tesi di dottorato sulla Cappella degli Scrovegni, a regalarmi questa bellissima idea».


Le iscrizioni sono molto rovinate, ben poco leggibili. Aveva tentato una prima, lacunosa ricostruzione Andrea Moschetti all’inizio del Novecento. Come si è appassionata al loro mistero?


«Devo dire che quando ho dato una prima occhiata a queste iscrizioni per farmene un’idea, ho alzato le sopracciglia: non c’era niente da fare. Ma la stizza per la sconfitta che attanaglia anche la decisione più razionale quando si sta per abbandonare il problema insolubile, mi ha impedito di sgombrare il tavolo dalle mie carte sparse. Ho cominciato a riordinarle e a fissare sempre più a lungo le foto che avevo di quelle pareti semicancellate».


C’è stata un’allegoria in particolare che ha riacceso la fiducia e l’ha avviata sulla via della ricostruzione?


«Uno dei primi giorni, mentre guardavo la Giustizia, ho avuto un’idea che è stata la scintilla che ha dato fuoco alle polveri. Mi sono resa conto che si potevano felicemente dare la mano due discipline: la filologia, che riflette su come si possano integrare per congettura quelle parti di testo che non abbiamo più, e la paleografia, che dei resti malconci delle scritte del passato cerca di cogliere quello che ancora sopravvive. Grazie a quella piccola congettura di una mattina di agosto di due anni fa, ho realizzato che forse c’era margine per lavorare e per arrivare a qualche risultato su uno dei cicli pittorici più straordinari e famosi al mondo. Mi spronava anche il ricordo una maestra e amica, Monica Donato che insegnava Storia dell’Arte e che si sarebbe entusiasmata al progetto».


Dunque si profilava l’ipotesi che ci fosse ancora qualcosa da scoprire sulla Cappella degli Scrovegni.


«Si poteva dire qualcosa di nuovo con gli strumenti congiunti della filologia e della paleografia, un tipo di lavoro che nessuno fa più, una sfida appassionante. Ma anche un lavoro al quale mi aveva allenata la formazione che si riceve alla Normale. La Scuola è un luogo privilegiato, nel quale ho avuto la fortuna di crescere e adesso ho quella di lavorare e insegnare; dove è importante il dialogo interdisciplinare, che è il solo bagaglio con cui si possono esplorare le larghe zone di confine fra i settori e gli specialismi, dove nessuno sembra più spingersi e che invece riservano le sorprese migliori. Una lezione che è sostenuta anche dal gruppo di lavoro guidato da Rita Deiana dell’Università di Padova, a capo di uniéquipe che da tempo sta studiando gli aspetti storico-architettonici della Cappella».


Ma torniamo alle iscrizioni: dopo la folgorazione della Giustizia come è andata avanti?


«In ogni ricerca è fisiologico che all’inizio ci sia una fase in cui il progresso è costante, fatto di incrementi quotidiani che procedono con un effetto-domino incalzante. Ma poi viene il momento di ritornare sui problemi rimandati perché più difficili. Ed ecco che arriva il tempo degli scoramenti, fino a quando, se si è bravi ma anche fortunati, si riesce a dare l’ultima mano al lavoro e a licenziarlo. Dietro un risultato felice non c’è mai solo la competenza scientifica, ma anche un coacervo di situazioni umane e di contingenze che, quando va bene, creano una sorta di “stato di grazia”. Per me è stata determinante l’emozione, trasformata in costante motivazione, che mi ha dato la consapevolezza di lavorare in uno dei luoghi più alti e sacri che abbia mai prodotto l’ingegno umano».


Perché sono così importanti queste iscrizioni?


«Lo sono perché sono i testi che volle Enrico Scrovegni per illustrare il significato del programma figurativo che commissionò. Sono le chiavi per intendere la simbologia spesso complessa delle figure che Giotto pensò e dipinse, all’interno di un ambizioso e splendido progetto civile, politico e culturale che realizzò per sé e per la propria città un illustre padovano del Trecento».


Si può risalire a chi fu l’autore dei testi e l’estensore materiale degli stessi?


«Per quel che riguarda l’autore passo il testimone agli studiosi di letteratura mediolatina e in particolare del coevo ambiente culturale padovano, a tal punto fiorente che è impossibile non ricercare in esso il compositore di questi versi. Gianola avanza l’ipotesi si possa trattare di Marchetto da Padova. Per quel che riguarda l’esecuzione materiale in verità si tratta di quattro mani diverse che si sono divise a gruppi il lavoro: la mano guida scrive i tituli di Spes, Karitas, Fides e Iustitia».


Come è riuscita tecnicamente a far emergere le parole?


«L’osservazione diretta è stata basilare, supportata dal direttore dei Musei di Padova, Davide Banzato. Ma la gran parte della ricerca si è basata sull’analisi delle fotografie, in particolare di quelle del sito Haltadefinizione e di quelle conservate all’Istituto Centrale del Restauro; di grande aiuto sono state anche le indagini multispettrali condotte dal laboratorio di diagnostica diretto da Giuseppe Fabretti».


E così, congettura su congettura, le parole hanno ripreso posto sotto le allegorie consentendone finalmente la corretta interpretazione. La loro restituzione aggiunge un tassello importante all’impresa di Enrico Scrovegni: con la sfilata dei Vizi e delle Virtù, coniata da Giotto e commentata dall’ignoto poeta, volle stendere una specie di manifesto civile, un vademecum figurativo e testuale volto all’integrità morale. Che Enrico Scrovegni volesse promuovere l’immagine di sé come probo cittadino e generoso mecenate, offuscata da quella di usuraio condivisa con il padre Reginaldo, ha ben giovato alla posterità poiché il genio di Giotto pinxit quello scrigno prezioso. Enrico compare in effige sotto la Croce del Giudizio, dalla parte dei beati, mentre consegna la Cappella nelle mani della Madonna a saldare il suo conto con la giustizia celeste, così come prescriveva la Chiesa, e a bonificare la sua reputazione terrena.


Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova