Targhetta: «La nuova precarietà è esistenziale Viviamo una vita fatta di segmenti scollegati»

l’intervista
È il più giovane in gara tra i finalisti, Francesco Targhetta, e quasi un esordiente. Trevigiano, poeta per vocazione, autore di un primo fortunato e anomalo romanzo in versi “Perciò veniamo bene nelle fotografie”, ha già vinto con il suo “Le vite potenziali” il Premio Berto e si candida a essere uno dei nuovi interpreti della realtà del Nordest.
Cominciamo dal titolo. Perché “Vite potenziali”?
«Un carattere del nostro tempo è la soverchiante offerta di opzioni: rispetto al passato ci è continuamente presentata la possibilità di fare infinite esperienze, di comprare qualsiasi prodotto, di viaggiare ovunque. La gamma delle potenzialità si è estesa fino a essere sconfinata, con la conseguenza angosciosa di darci la sensazione che non avremo mai il tempo per fare tutto ciò che vogliamo. I protagonisti del romanzo vivono in modo diverso questa condizione: c’è chi ne trae euforia, c’è chi cerca di sfuggirle. In ogni caso tutti capiscono che la loro vita non potrà più prescindere da quella pletora di occasioni che continuamente ci tira in ogni direzione e che è ormai inseparabile dalla realtà delle nostre esistenze».
Nel libro precedente il precariato era una condizione lavorativa, qui è esistenziale?
«Sì. È naturale che questo nuovo paradigma in cui ci troviamo a vivere implichi una condizione di perpetua precarietà, nel senso che le nostre vite risultano sempre sottoposte alla possibilità - che alcuni vivono come rischio, altri come opportunità - di prendere direzioni diverse. Oggi non si può più assistere a esistenze coerenti come linee rette: sempre più le persone tendono a vivere più vite, o meglio, a vivere una vita formata da segmenti irrelati tra loro. Il mio romanzo fotografa un periodo temporale molto breve, meno di un anno, e dunque questa forma di instabilità è soltanto suggerita, ma si capisce che i personaggi, pur avendo tutti contratti a tempo indeterminato e lavorando in un ambito come quello informatico nel quale la disoccupazione non esiste, non si sentano affatto saldi e ancorati a qualcosa».
I tre personaggi del libro affrontano la trasformazione digitale in modo diverso. Rappresentano la generazione dei trenta-quarantenni?
«Il romanzo non è un ritratto generazionale: la trasformazione tecnologica ci riguarda tutti. A me interessava vedere come tipi umani eterni si adattano a questo nuovo mondo. È stata una specie di esperimento da laboratorio. I tre protagonisti sono emblematici di tre psicologie universali, che esistono da sempre: l’ottimista razionale e progressista, che cerca di assecondare la direzione del mondo, pur riconoscendone a tratti le storture; il cinico privo di scrupoli e narcisista che ambisce a fare di questa esplosione di potenzialità un terreno favorevole alla propria ascesa personale; il nerd timido, introverso e pieno di impacci che vorrebbe sottrarsi e farsi da parte e di cui ho fatto, invece, il centro del libro».
È un libro sul lavoro. C’è una continuità rispetto al filone che da Ottieri, Volponi arriva fino a Trevisan e Falco?
«La tradizione italiana letteraria sul lavoro mi è sempre interessata moltissimo: questi autori, ma anche Mastronardi, Bianciardi, Rea, Pagliarani, li ho tutti letti e amati. Ho l’impressione che per questa mia passione contino, in egual misura, il mio essere veneto e la mia estrazione operaia. Sono cresciuto nella pesante lezione che si è il proprio lavoro, e dunque nelle letture e nella scrittura ho sempre intimamente cercato di minare questo assunto, di metterlo in discussione, di spezzarne l’oppressività. Non credo, ovviamente, di esserci riuscito, sicché continuerò a lottarci».
Il Campiello è servito?
«Ha dato al romanzo una visibilità che non avrebbe avuto, facendolo arrivare a qualche persona in più. Non ho idea dei numeri: non mi informo. Il tour e la vicinanza con gli altri autori sono stati molto arricchenti a livello personale. Gli scrittori sono esseri solitari. Quando si ritrovano a passare molto tempo tra la gente, imparano sempre qualcosa, come i bambini». —
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